Questo il mio primissimo racconto, ancora molto acerbo, con cui ho partecipato al contest diverso sarò io:
Concorso letterario per racconti inediti a genere libero – per scrittori professionisti e non professionisti - con un esplicito riferimento alla diversità in tutte le sue svariate sfaccettature.
Il tema di questa seconda edizione di Diverso sarò io è "il coraggio". Il
coraggio di essere diversi in una società che discrimina ogni variazione dallo
standard. Il coraggio di dire no, di opporsi ma anche quello di accettare e
accettarsi. Tema di fondo ispirato dalla strofa della canzone dei Queen "Show
must go on".
“La mia anima è colorata come le ali delle farfalle
Le fiabe di un tempo invecchieranno, ma non moriranno mai
Posso volare, amici miei
Lo spettacolo deve andare avanti,
Lo affronterò con un sorriso
Non mi arrenderò mai
Lo spettacolo deve andare avanti,
Dentro, il mio cuore è rotto
Il mio trucco potrebbe scrostarsi
Ma il mio sorriso regge ancora”
(testo e musica Brian May, Queen. Diritti riservati)
Mi chiamo Rosy, già, non Asia, Viola, Martina o Gaia, Rosy come diminutivo di Rosina, il nome della mia bisnonna, ma la mia bisnonna lo portava quando era di moda, io no. Io non ho niente che sia di moda. Ho dodici anni, sono Rosina Costello e frequento la seconda media in un paesello nella provincia della capitale, anche se nella capitale ci sono stata solo una volta in vita mia, quando mio zio Onofrio s’è preso la laurea in legge e lo siamo andati tutti ad applaudire.
Oggi primo giorno di scuola, una scuola nuova “Quel che ce vo’ pe’ te” ha detto mio padre, ma io tremo al pensiero di vedere gente sconosciuta e soprattutto di sentire occhi puntati su di me. Avrei preferito rimanere alla scuola del mio paesino, dove tutti mi prendevano in giro… beh non proprio tutti, o forse sì tutti, ma ci sono abituata: stesse facce, stessi luoghi, stesse stupide battute, stesse inutili giornate.
Comunque mio padre ha deciso che era meglio per me frequentare al paese vicino, non gli piaceva vedere le boccacce alle mie spalle durante l’uscita, quando passava a prendermi in pausa pranzo, dall’officina. Anche lui si vergogna di me ed ora è sollevato che non debba più aspettarmi in mezzo agli altri genitori, sbandierando la sua paternità, ora prendo il pullman e a lui non importa molto se mi tirano i cartocci da dietro o se mi chiamano con i peggiori nomignoli che abbia mai sentito in vita mia. “Non ti curar di loro” mi dice, certo, ora non è più un suo problema, ora non sente la sora Marianna che gli dice: “Compà ma la Rosinella deve magnà de meno se no fa la fine sella pora Giannona, che la devono alzà in tre dal letto!” oppure la vedova Mailelli che ripete: “Ma la Rosina sembra un maschiaccio, perché la tu moje non je fa un bel vestitino da femminuccia?” e papà non dovrà più guardarla con un misto di compassione e voglia di darle un pugno in faccia: io con un vestitino? Sembrerei un bombolone alla crema incartato a festa.
Oggi primo giorno di scuola dicevo, io e il mio zaino sgangherato, le mie scarpe vecchie, lavate di fresco, ma la mia maglietta nuova di zecca. Me l’ha presa mamma dopo tanto insistere, lei faceva la sarta da giovane e mi sistema i vestiti, perché non se ne trovano di carini della mia taglia, ma i suoi abiti non hanno marca e non sono mai come quelli delle mie compagne di classe, non che voglia essere come loro, ma a volte forse un po’ più simile. “Non devi essere come tutti gli altri Rosy, non devi far parte della massa” mi diceva lo zio Onofrio, prima di trasferirsi a Roma. L’unico che mi parlava, l’unico cui non sembravo essere invisibile nonostante la mole. Diceva bene lo zio, non ci si deve omologare alla massa, ma io quanto vorrei farne parte invece di quella massa, di un gruppo pinco pallino qualunque, ma non vado a danza io, per ovvie ragioni, non faccio sport, non vado agli scout, non suono nella banda, non canto nel coro, non faccio niente, sto a casa mia in aperta campagna, a cinque chilometri dal centro abitato, non frequento nessuno. Viviamo nella vecchia cascina di nonno Guido, perché nessuno la vuole comprare e a papà non danno il mutuo per prendere una casa nostra.
Avevo chiesto a mamma la maglia di una marca sportiva di moda, lei aveva risposto no, poi oggi compare con questo pacchetto e dentro c’era lei: blu con i bordi azzurri e lo stemma bello grande, così tutti vedranno che ce l’ho anch’io e forse mi lasceranno un po’ in pace.
Scendo dal pullman e guardo il grosso piazzale colmo di gente, mi viene il vomito, ficco la mano nella tasca del mio enorme giacchetto jeans e tiro fuori una merendina al cioccolato, per farmi passare un po’ di tensione, mi avvicino titubante. Sono riuniti in piccoli gruppi e sembra tutti mi guardino, qualcuno ride, mi passo la mano tra i capelli corti, crespi, pettinati con tanta fatica questa mattina, ma già sparati in aria per conto loro, mi tiro giù il bordo della maglia a disagio, soprattutto per coprire il mio sedere. Il portone è ancora chiuso, sono bloccata lì fuori e mi sembra di sentire alle mie spalle un branco di lupi pronto a sbranarmi. Poi una voce dietro di me: “Ehi!” mi volto molto lentamente, rossa come fiamma in viso, non amo molto parlare con chi non conosco io.
“Ciao, sei nuova?” Sto per rispondere e la ragazza alta, capelli corvini lunghi e perfettamente lisci, già truccata come un’adulta, mi fa: “Io e i miei amici ti volevamo fare una domanda: ma sei un maschio o una femmina?” Io arrossisco ancora di più, balbetto un: “sono una ragazza” ma la mia voce esce talmente roca che tutti quelli che ascoltano scoppiano a ridere, la ragazzina è soddisfatta, ha portato a termine la sua spacconata, la sua punizione per un gioco di scommesse o la sua prova di coraggio, se ne torna a schiena dritta dai suoi amici che se la ridono e si danno pacche sulle spalle. Mi siedo sui gradini, prendo il mio blocco e disegno, disegno unicorni, farfalle e folletti, ma quel che mi riesce meglio sono le fate, le so fare di tutti i tipi: piccole fatine paffutelle, fate che volano, fate con i capelli fluenti e i corpi meravigliosi.
“Wow, sei brava!” una voce alle mie spalle, chiudo di scatto il blocco spaventata e irritata fino alle lacrime per quell’intrusione, i miei disegni non sono fatti per essere visti.
Alzo lo sguardo, una ragazzina della mia età forse, piccolina, senza minimo accenno di seno, con i capelli biondi tagliati alle orecchie in un caschetto liscio, con tanto di frangetta, mi sorride e io aspetto scatti la presa in giro senza pronunciar parola.
“Parli la nostra lingua?” chiede lei, eccola lì inizia la tortura, faccio il broncio e non rispondo, lei si siede accanto a me.
“Io sono Sara tu?”
Mi arrischio ad alzare lo sguardo ancora, lei sorride, non un sorriso ironico o cattivo, un sorriso vero.
“Mi chiamo Rosy”
“Oh allora parli italiano, Rosy, carino, carino davvero” i suoi occhi azzurri mi guardano e io faccio una sorta di smorfia che dovrebbe essere un sorriso.
“Il mio vero nome è Rosina” aspetto che rida.
“Oh beh, mi piace più Rosy, io faccio di cognome Bottan” dice come per dire ‘sto peggio di te’. Sorrido ancora, poi ci fissiamo e scoppiamo a ridere irrefrenabilmente, lei si china e poggia la fronte sulla mia spalla. Nessuno mi si avvicina mai così tanto, il contatto è piacevole ma un po’ mi imbarazza, quando ci siamo calmate abbastanza mi chiede:
“Che classe fai?”
“La seconda B”
“B? allora sei con me!”
A quella notizia il mio sorriso aumenta, il mio umore nettamente migliorato. Suona la campanella, poggio una mano sul gradino per riuscire ad alzare il mio culone, poi mi sorreggo alla ringhiera per arrivare al secondo piano, Sara mi aspetta mentre tutti mi passano avanti spintonandomi.
“Togliti di mezzo ippopotamo!” mi dice un ragazzo grande e quasi mi fa cadere, io non dico niente, salgo a testa bassa ansimante, anche Sara tace ed io lo apprezzo, non serve commentare certe cose e odio chi mi dice: “Non li ascoltare sono maleducati, non farci caso sono ragazzini, non te la prendere non ne vale la pena!” certo che me la prendo, come potrei non farlo?
Entriamo nell’aula, la cattedra è in fondo con la lavagna pulita accanto e tre file di banchi verdolini davanti.
“Vieni” mi dice Sara, mi siedo vicino a lei, i posti in terza fila sono già tutti presi e anche in seconda, tutti erano corsi ad accaparrarsi i banchi migliori e io da brava lumacona sono arrivata troppo tardi. Restano però due banchi in prima fila laterali, almeno non siamo proprio in faccia ai professori.
Una professoressa entra: capelli corvini con qualche spruzzata di grigio, tirati su in una cipolla, occhiali con la catenella e naso aquilino, mi incute terrore a prima vista.
“Questa è la Stalci: Italiano, storia e geografia, è una vera dittatrice, senti che silenzio in classe? Beh, non lo sentirai con nessun altro” mi sussurra Sara. La prof si gira, come avendo un radar, a quel sussurro impercettibile e la fulmina con gli occhi scuri, la bocca sottile si piega in una leggera smorfia, mi pare di sentire il cuore di Sara battere all’impazzata, o forse è il mio. La Stalci si siede, lentamente, posando con cura maniacale un registro e un’agenda sulla cattedra, poi getta un’occhiata a tutta la classe, uno per uno, come volesse mangiarci.
“Bentornati ragazzi, si ricomincia” dice, ma nessuno si rilassa a quelle parole di benvenuto.
Mi punta gli occhi addosso, sento il viso scottare e il sangue pulsare nelle tempie, muovo nervosa le gambe sotto il banco, che essendo troppo stretto per me trema tutto. Due penne rotolano sul pavimento, mi chino per prenderle, ma non riesco ad arrivarci con il braccio. Mi prende il panico, metto il ginocchio a terra e mi ficco sotto al banco. Qualcuno inizia a ridacchiare, poi ecco, afferro le penne e mi rialzo
prendendo una sonora zuccata sul mio tavolo, stavolta le risate si sentono per bene, la prof alza lo sguardo gelido, tutti tacciono.
“Abbiamo una nuova alunna, ti dispiacerebbe presentarti?” mi dice, ed io vorrei scappare via, sento lacrime che premono per uscire e un nodo alla gola, sto zitta, gioco con una penna sul banco.
“Si chiama Rosy, è un po’ timida” dice Sara ed io sento di amarla già, mentre la sbircio da sotto le palpebre socchiuse.
“Bene, avremo tempo per conoscerci, ora l’appello” prende il registro e inizia ad elencare i nomi, temo il momento in cui chiamerà il mio, rideranno, ed io non riuscirò a dire quella semplice parola: ‘presente’
“Agabili Pietro”
“Presente”
“Albinelli Giulia”
“Presente”
“Calvini Giovanni”
“Presente prof”
“Limitati a dire presente Calvini, Donante Stefania”
“Presente”
“Costello Rosina”
La ragazzina dai capelli corvini in prima fila, due posti dopo di me, la stessa che ha fatto la bravata chiedendomi del sesso, dà una gomitata ad una sua compagna, anche lei tutta in tiro, con trucco e capelli lisci di piastra, biondi come il grano, ridono e sento ridere anche dietro, mi faccio forza e dico: “Presente”.
Dopo due ore fitte di lezione, anche se è solo il primo giorno, suona la ricreazione, ho una fame del diavolo, tiro fuori la mia rosetta, annuso il salame con il formaggio che mamma ci ha messo dentro, dò un morso mentre lo stomaco brontola.
“Gnamme gnamme” sento dire alle mie spalle, non mi volto, Sara è di schiena a sbucciare la sua arancia nel cestino dei rifiuti, la prof è sulla porta a chiacchierare con una collega, sono sola.
“Ehi dico a te, maiale!” mi arriva una pacca sulla spalla, mi giro, vedo un ragazzetto, col gel sui capelli, occhi castani un po’ orientali, naso dritto e all’insù il mio cuore ha un sussulto, se fossi più carina, se fossi solo normale, mi piacerebbe avere le sue attenzioni, mi piacerebbe ricevere da lui i bigliettini che ho visto scambiare tra ragazzi e ragazze nella mia vecchia classe o magari un messaggino sul telefono che non ho…
“Allora sei sorda o ritardata?” mi dice catapultandomi nella realtà, non rispondo.
“Non hai bisogno di strafogarti ancora, tra un po’ ti esplode la maglietta” mi prende il panino e se lo va a mangiare seduto sopra il banco. Già dimenticandosi di me, prende il cellulare di una compagna “Ridammelo scemo!” si lamenta lei, ma sorride,
si vede che sta allo scherzo, lui si mette a giocare ai videogames, mangiando il mio panino con noncuranza. Nessuno dice nulla, arrotolo la carta e la ficco nello zaino, la butterò a casa, non voglio alzarmi e fare la sfilata fino al cestino, mentre tutti mi guardano.
Sara torna al banco “Già mangiato tutto il panino?”
“Già” dico io guardando famelica la sua bella arancia con lo stomaco che brontola.
Poi si avvicina di nuovo la ragazza dai capelli corvini.
“Oh ecco Virginia la lecchina” sussurra Sara “è la cocca di tutti i prof, ha tutti 10, ma è una vera vipera!”
“Ehi tu, Rosina” sottolinea il mio nome con disprezzo “bella maglia!” Mi fa guardandomi attentamente.
Forse mi sono sbagliata su di lei, inizio a pensare, poi aggiunge: “ma è un’imitazione venuta male, l’hai presa al mercatino delle pulci?” il gruppetto di suoi seguaci ride sonoramente, “non vedi?” continua lei “ha lo stemma storto e poi ce l’ha a destra invece va a sinistra, ahahahahha”
Mia madre mi sentirà oggi, mi sentirà eccome, appena le mie lacrime di rabbia e umiliazione mi permetteranno di parlare, mi ha imbrogliato: ha preso una magliettaccia da quattro soldi e ci ha cucito lo stemma, ed ora mi han preso in giro al mio primo giorno, per i capelli rossi, per le guance grosse e lentigginose, per il mio nome e come se non bastasse per la maglia tarocca.
Ed ora raccolgo tutto il mio coraggio per alzarmi ed andare in bagno, sposto la seggiola con i piedi spingendo anche con le mani, per allontanarmi dal banco, Virginia mi guarda dall’alto in basso, nonostante io sia più alta di lei, ma cammino a testa bassa, curva, mi guardo i piedi pregando di non inciampare. Tutti quelli seduti devono tirarsi avanti o togliere gli zaini da terra, non ci passo e non faccio che chiedere: “Permesso”. Arrivo dalla prof.
“Posso andare in bagno?” lei fa cenno di sì con il capo e con la mano fa il gesto di andare, senza smettere di parlare con l’altra insegnante, si lamenta della classe troppo numerosa e lo stipendio da miseria. Cerco di orientarmi alla ricerca dei servizi, i ragazzi in corridoio mi guardano, o forse sono io che immagino tutti gli sguardi su di me. Ecco il bagno, entro e mi blocco: sento piangere dietro una porta chiusa, sono indecisa sul da farsi quand’ecco arrivare Virginia, mi preparo ad un altro attacco, ma lei m’ignora “Sono io” dice e gli aprono la porta, intravedo una ragazzetta magra, magra, la pelle nera, scura come non ne avevo mai viste, capelli cortissimi ricci e occhi grandi, acquosi, pieni di terrore, due tipe la tengono ferma, seduta sul water. La porta si chiude
“Hai portato il pennarello?” dicono da dentro
“Sì, toglile la felpa”
I singhiozzi aumentarono, apro la bocca ma la voce non viene, tutto quello di cui non
ho bisogno è inimicarmi ancora Virginia e la sua truppa, ma poi prendo un grosso respiro e sento la mia voce tuonare:
“Che fate lì? Chiamo qualcuno!”, silenzio
Si affaccia Virginia “Ehi maialona, vuoi anche tu una bella scritta sulla tua maglia taroccata? Poi la mettiamo su facebook insieme a bunga, bunga muso nero” ridono sguaiatamente, richiude la porta, ma prima che riesca a farlo completamente ci infilo un piede, mi fa male, ma non lo tolgo.
“Vuoi fare la spia? Spiona! Ti renderemo la vita un inferno!” poi abbassa la voce ad un sussurro: “Ma se starai zitta ti presenteremo a quelli che contano, non sarai più una sfigata” propone inaspettatamente, uno sguardo sottile e tagliente, calcolatore. Provo disgusto.
“No, non faccio la spia, ma se non la lasci andare subito ti picchio, e per la cronaca sto perfettamente bene senza di te né i tuoi amici, preferisco essere sola che essere amica tua!”
Non so dove ho trovato la voce, dove ho trovato il coraggio, ma non riuscivo a contenere la rabbia.
“Ahahahaha” ridono pensando che sia matta a rifiutare, infilo le mani nella fessura aperta dal mio piede e strattono la porta, che si spalanca, un attimo dopo Virginia è schiacciata al muro, io ho in mano i suoi bei capelli neri e li tiro forte, le amiche accorrono lasciando la ragazzina terrorizzata, che corre via come il vento. Le due mi sono addosso e cercano di tirarmi via, ma non mollo la presa. Virginia inizia a piangere come una bimbetta e grida, una delle due afferra l’astuccio che ha portato la loro capobanda e me lo sbatte sul volto con ferocia, ancora non mollo.
“Che succede qui?
Ci immobilizziamo, è Ada la bidella, peggio di Terminator, col suo camice azzurro che le va stretto sui pettorali massicci come un uomo
“Mollate subito o vi porto dal preside”
Obbediamo immediatamente, nessuna ha voglia di una sospensione il primo giorno di scuola.
Lei nel corridoio mi soffia nell’orecchio: “non finisce qui, te ne pentirai!”
Sogghigno, non ho paura di lei.
………………….
Arrivo a casa, il pullman affollato è stato uno strazio, ho perso la fermata perché non riuscivo a passare tra la gente con gli zaini, nello stretto corridoio, mi son fatta una camminata dalla campagna del signor Orazi fino a casa mia. Entro battendo la porta, sono già tutti a tavola: Nonno Guido, Mio fratello Carlo e i gemelli Sandro e Simone, Zia Tina, che vive al piano di sopra, ma mangia sempre da noi. Tutti parlano insieme e masticano rumorosamente, mio padre a capotavola, le mani nere di grasso delle automobili, che non va via neanche quando si lava col limone, mia madre che passa a
rimboccare i piatti scodellando pasta al sugo con le polpette. Mi siedo arrabbiata, ma nessuno se ne accorge, tutti sono troppo impegnati con propri monologhi, non notano neanche l’occhio gonfio, d’un tratto sbotto:
“Imbrogliona!” ce l’ho con mia madre, tutti mi guardano come fossi un marziano.
“Imbrogliona, imbrogliona!”
“Ma che te sei ammattita?” mi dice mamma, i gemelli iniziano a fare smorfie e ridere tirandomi molliche di pane con le forchette.
“La maglia, mamma, questa falsa maledetta maglia, la scritta andava a sinistra!” mi sfogo, non più per la maglia, non solo, ma per tutto quanto, per la mia vita ingiusta, per tutti loro, che sono come sono e se ne fregano.
“E che je fa! Dammela che te la cucio dritta!”
Mi alzo da tavola, chi se ne importa delle polpette, il mio stomaco vuoto protesta, ma sono troppo arrabbiata.
Mi chiudo in camera, la cosa positiva di essere l’unica femmina di quattro figli è avere una stanza tutta mia. Avvio il cd e metto le cuffie a volume insostenibile, non voglio sentire nessuno, piango e piango, come non sono mai riuscita a fare.
Dopo un po’ arriva mamma, in mano un piatto con latte e biscotti, non tolgo le cuffie ma abbasso il volume, lei si siede.
“Rosy, mi spiace, lo sai che non abbiamo abbastanza soldi per quella maglia”
“È solo una stupida maglia” mi asciugo gli occhi con la manica, dispiaciuta per avergli detto della maglietta, che mi aveva regalato tutta contenta quella mattina.
“È stata una brutta giornata?” la guardo, i suoi occhi dolci, il viso buono, davvero mortificato.
“No, non troppo” rispondo, lei sorride, mi dà un bacio, io mi pulisco la guancia, lei scuote la testa ed esce. Bevo il latte d’un soffio, mordo un biscotto e prendo il mio blocco, ne esce un bigliettino:
“Sei stata grande oggi nel bagno, sono orgogliosa di te.” è firmato “La tua nuova amica Sara”, stringo il biglietto al petto poi inizio a disegnare, disegno e mi calmo, lasciando tutto là fuori ed immergendomi nel mio personale mondo di fiaba. Alla fine osservo il foglio e vedo che la fata che ho disegnato somiglia alla mia nuova amica, la prima amica che abbia mai avuto, un sorriso sostituisce le lacrime, la vita alla fine non è poi così brutta, forse domani farò vedere il disegno a Sara, le piacerà? Sono emozionata al pensiero. Il sole filtra dalle tende nel caldo pomeriggio dei primi di settembre, mi alzo ed esco fuori, voglio godermi il sole.
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