sabato 26 luglio 2014

Bivio, la mia storia del futuro

Un futuro non troppo lontano, una ragazza come tante la cui vita viene sconvolta da una serie di strani eventi.

Capitolo 1

Le prime ore del giorno






Era una mattina come le altre, come sempre misi a terra i piedi, prima ancora di aprire gli occhi,e come sempre inciampai sulle mie ciabatte.
‘Ore 7:35, temperatura 26 gradi centigradi umidità 64%, buongiorno signorina Callagan’
“Sì, sì” bofonchiai “Attiva il programma d’intrattenimento numero 7 George”
Davanti a me comparve l’ologramma richiesto, lo spostai con un gesto del braccio.
“Non qui, in cucina!” Protestai.
Trascinai i piedi ancora mezza addormentata e mi sedetti ad osservare le ultime notizie inserite nel mio social network preferito.
“Latte macchiato” dissi con voce gracchiante al computer. Il microonde si avviò mentre sghignazzavo all’ologramma postato dal mio amico Jamie.
‘Che scemo! ’pensavo grattandomi la schiena.
“Programma eseguito”.
 L’annuncio dell’elettrodomestico mi fece sobbalzare, mi stiracchiai ancora un attimo alzandomi a prendere la mia colazione.
“Buongiorno Marie” la voce di mio padre, puntuale come ogni inizio di giornata penetrava dalla porta aperta dello studio.
“Giorno Joe” lo salutai. Non lo avevo mai chiamato papà, da ché ricordavo, lui era Joe, il mio migliore amico nonché unico parente che avessi. “Scritto qualcosa?” chiesi come ogni mattina.
“Mmm, qualcosina” la voce di lui si avvicinava alle mie spalle.
Si ostinava a passare nottate intere a scrivere ad un vecchio computer, ormai nessuno scriveva più in quel modo da decenni, ma Joe sosteneva che si può scrivere un vero romanzo solo alla vecchia maniera. ‘Dettare non può equivalere a battere le dita sulla tastiera’ era solito dire giustificandosi.
“Vedrai, sarà un capolavoro!” lo incitai mordendo una ciambella, mentre la glassa rosa colava appiccicando le mie dita.
“Non sei in ritardo tesoro?”
“No” risposi inghiottendo un grosso boccone e bevendo subito dopo un grosso sorso di latte per non soffocare. “Oggi è giovedì, ho lezione alle nove”
Uscii, l’aria fresca del mattino m’investì, mentre i rumori della città, isolati nell’appartamento, ora m’inghiottivano stordendomi. Cercai con gli occhi la mia vecchia bike, dove l’avevo parcheggiata? Poi la vidi, svettava tra le moderne iperbike argentate, il mio vecchio catorcio rosso sbiadito. Accesi il motore e il getto d’aria borbottò un pochino, prima di sollevarsi da terra. M’immisi nel traffico, dribblai due ragazzini in skate, dovevo star attenta perché la bike era tarata all’altezza di mio padre e ad ogni semaforo rischiavo di cadere, dato che i miei piedi non toccavano terra.


Ripassai mentalmente le lezioni cui dovevo assistere quella mattina, non mi soffermai a godere del panorama dell’oceano scintillante al sole mattutino, né dei ciliegi fioriti che coloravano l’Union park. Se l’avessi saputo avrei cercato di memorizzare tutto, anche le bancarelle etniche del viale Rainbow, ma non lo feci, sobbalzavo più veloce che potevo nel mio trabiccolo, ignara che quello fosse un giorno importante: era il giorno della mia morte.

Capitolo 2

L’ultima lezione

Parcheggiai nelle postazioni più lontane, mi piaceva passeggiare nei lunghi viali alberati che conducevano alla Union University, lì potevi sentire il canto degli uccelli e il frinire dei grilli. Il fondatore non aveva badato a spese istallando i filtri anti-rumore anche all’esterno. Era un filantropo e si dice fosse solito affermare: “Le menti vanno coltivate alimentandole con la cultura, cullandole al suono della natura e stimolandole con sfide intellettuali”.
Ed oggi m’attendeva una di quelle sfide: la gara delle citazioni, per il corso in letteratura antica, davvero non il mio forte.
Uscita dal viale il maestoso edificio a vetri, dalla forma bizzarra di antiche cattedrali, m’accolse scintillando, il verde prato curato, tempestato di studenti lo circondava.
Varcai l’enorme portone.
Matricola 10.999 Marie Katrine Callagan, benvenuta, ha lezione tra dieci minuti, aula 27H”
“Mmm” annuii e mi avviai guardandomi intorno, chissà se Jamie era già arrivato, non vedevo l’ora di commentare quel suo olo.
“Buongiorno Marie” La voce familiare di Katie Adams mi accolse nell’ampio atrio col soffitto a volta.
“Ehi ciao, oggi quiz!”
“Già” sbuffò lei gettando una lunga treccia corvina dietro la spalla, mentre con l’altra mano inforcava meglio gli occhiali, che continuavano a calarle sul piccolo naso.
“Non capisco perché continui a portarli Katie, perché non vai dal curatore?”
“Oh Marie, me lo hai già detto fin troppe volte, mi piacciono i miei occhiali, e poi non mi fido, lo sai, mi curo solo con rimedi naturali!”.
Sbuffai scuotendo il capo, la mia amica è così: non si preoccupa di cosa pensano gli altri, non indossa che buffi abiti larghi dai colori sgargianti (sostiene che i colori influenzano l’umore), dice sempre quel che pensa e tutti la evitano, ma a me piace, forse proprio per queste sue bizzarrie.
“Andiamo a cercare Jamie o verremo bocciate” esclamai tirandola per un braccio, diretta all’aula relax.
La porta a vetri frusciò scostandosi, rivelando il chiasso che c’era all’interno.
Cercai Jamie, per prima cosa nel suo luogo preferito: la postazione media. Un paio di ragazzini del primo anno giocavano con una simulazione di combattimento spaziale, galleggiando, i volti corrucciati, immersi nella realtà virtuale. Jamie non era lì.
 Guardai al distributore di cibi, solo un gruppetto di ragazze imbellettate, che beveva dai cartoni fumanti, sghignazzando di qualcosa di sciocco, girai lo sguardo con una smorfia di disgusto. Infine lo vidi, finalmente, seduto su una poltroncina insieme al suo amico Jared, che se la ridevano come matti.
Istintivamente alzai una mano per sistemare i capelli, incontrando la matassa disordinata di ciocche ribelli che uscivano dall’elastico, vi rinunciai, tirai un po’ il bordo della maglia sul petto, per sembrare più femminile. Gettai un’occhiata a Katie per vedere se l’aveva notato, lei sorrideva, arrossii un po’ poi mi diressi a passo deciso verso i due.
“Come butta?” esordii cercando di sembrare più spontanea possibile, guardavo solo Jamie, senza arrischiarmi a puntare lo sguardo sull’amico.
“Ehi scarabocchio! Pronta per il test?”
Feci il broncio, odiavo quando mi chiamava con quei nomignoli, soprattutto davanti ad altri, arrischiai una sfuggente occhiata a Jared che sorrideva. I suoi scintillanti occhi verdi puntati su di me e il suo ciuffo biondo impeccabile, perfettamente acconciato sulla sua fronte. Abiti firmati, che aderivano come un guanto al suo corpo muscoloso, camicia all’ultima moda, con l’allaccio laterale. A parole disprezzavo quelli come lui: figli di papà che hanno tutto dalla vita, ma il mio corpo traditore reagiva da solo alla sua presenza.
Il cuore iniziò a galoppare e prima che diventassi irrimediabilmente color rosso rubino mi voltai dicendo:
“Ti aspetto in aula”
‘Calma Marie, calma, cammina, un passo dietro l’altro, la porta è vicina’ mi ripetevo, cercando di regolarizzare il respiro.
Sentivo il passo trotterellante di Katie con le suole di plastica rumorosa, ma non rallentai, mi fermai solo davanti all’aula. Di fronte a quella marea umana vociante, e già parzialmente sistemata sugli spalti, mi calmai.
Prendemmo posto in quart’ultima fila, le ultime già occupate da chi si era svegliato all’alba per una possibilità in più di copiare. Con il mio zaino occupai il posto per Jamie e mi sedetti accendendo lo schermo sullo schienale della poltrona davanti alla mia e inserendo i miei dati.
“Cosa pensi tirerà fuori stavolta?” chiese Katie mentre inseriva il programma per il ripasso, accendendo il suo auricolare.
“Mah, spero non vada troppo indietro e non tiri fuori qualche autore sconosciuto” Avviai il programma, nel mio piccolo auricolare e una voce femminile mi salutò:
“Programma di letteratura del terzo anno, cosa si desidera ripassare?”
“Opere letterarie, citazioni” dissi contro voglia.

Quello che avviene soltanto una volta è come se non fosse mai avvenuto. Se l’uomo può vivere solo una vita, è come se non vivesse affatto”.  Milan kundera.


Capitolo 3

Scocca l’ora!

Arrivò Jamie, all’ultimo momento, come al solito, sempre col suo sorriso strafottente e l’aria da ‘non me ne frega niente’ stampati sul viso spigoloso. Il cuore ebbe un sussulto, Jared era con lui. Ritrovai i suoi occhi puntati, dritti nei miei, ed arrossi fino alla radice dei capelli, abbassando repentinamente lo sguardo e maledicendo il mio corpo traditore. Non riuscivo a capacitarmi di essermi presa una cotta per quel tipo.
Il prof si schiarì la voce interrompendo i miei sciocchi pensieri, silenzio. Entrò il rettore, galleggiava in aria sulla sedia su cui era costretto da quasi un decennio, a causa della senilità pensavo: doveva avere sui centoventi anni, ma incuteva ancora timore e rispetto.
“Iniziamo!” tuonò. “Computer dai inizio alle danze!”.
 Quella solita frase apriva i ‘giochi’ studenteschi. La mia fortuna scarseggiava vistosamente quel giorno: la mia postazione s’illuminò di una luce rossa, m’irrigidii.
 “C’è qualcosa di commovente in una nave che arriva in porto dal mare e ripiega le ali bianche per riposare.”
Disse il rettore in persona, aprendo ufficialmente il test. Cercai di pensare, una voce nella mia testa disse: ‘Conrad’, un attimo dopo Jamie mi suggerì piano.
“La linea d’ombra di Conrad Joseph” ripetei.
“Molto bene Callagan, proceda”.
A questo ero preparata: 
“L’amore guarda non con gli occhi ma con l’anima e perciò l’alato Cupido viene dipinto cieco.” Dissi digitando un numero a caso. Una postazione tra le prime file s’illuminò.
“Sogno di una notte di mezza estate – William Shakespeare” Rispose esultante una delle secchione del mio corso di storia, guardandomi con segno di sfida.
Feci una smorfia di sconfitta.
……………..

La mattinata proseguì stressante e impegnativa, all’ora di pranzo mi sedetti già esausta ad un tavolo da sola con il mio vassoio. Stavo sgranocchiando delle carotine crude, quando molteplici voci gridarono:
“Attenta!”
Ebbi appena il tempo di vedere la telecamera di sicurezza appesa sul soffitto, proprio sopra la mia testa, staccarsi.
È qui che succede? ’ Chiederete voi. ‘No, non lo è’.
Una mano alle mie spalle mi tirò indietro fulminea, facendo ribaltare la mia sedia e facendomi prendere una forte zuccata, ma almeno ero viva, per ora.
“Stai bene?” la voce di Jamie chiedeva.
“Ehm, credo, credo di sì” mi alzai, tutti fissavano ora me, ora il pesante apparecchio per le riprese, i rilevamenti anti incendio ed anti droga, inorriditi per quel che poteva succedere e sollevati per la mia fortuna sfacciata. Così pensavano allora, e così pensavo anch’io. Presto mi sarei ricreduta.

Le 17:00, passai per il grande portone.
 “Arrivederci signorina Callagan, domani ha lezione di Economia mondiale e nanotecnologie”
“Si, si” borbottai al computer. Katie e Jamie ai lati, ascoltarono in silenzio la stessa tiritera, stanchi anche loro. Ci avviammo al parcheggio chiacchierando dei risultati del quiz. Jamie aveva ottenuto una meritatissima prima posizione, io ero già contenta di non essere arrivata ultima o di non essere finita fuori con un demerito: me l’ero cavata con la sottrazione dei punti acquisiti con i suggerimenti di Jamie, intercettato dall’odioso OCULUS, l’unità centrale dell’aula dei quiz, creata solo per rompere le scatole a noi poveri studenti.

“Parco?” propose Jamie accendendo il suo skate-waving
“Passo” rispose Katie. “Devo fare delle commissioni”
“Ok” risposi io “Ma niente partite di fly ball” stavo per aggiungere, ma le parole mi morirono in bocca. percepii solo un forte spostamento d’aria e caddi a terra.
“Ma vuoi stare attenta?” gridò Jamie arrabbiato e spaventato. “Vuoi morire oggi?”
Mi alzai intontita, guardando lo scooter-vap che si allontanava, braccio alzato e dito medio in bella mostra per mandarmi a quel paese.
Jamie mi diede la mano, io mi spolverai i vestiti. “Parametri vitali stabili, battito accelerato, consigliato un calmante o un momento di riposo” parlò l’auricolare nel mio orecchio.
“Tutto ok George” dissi, ricomponendomi.
Seguii Jamie nel viale affollato e al cancello salutai Katie con un gesto, svoltammo a destra immettendoci nella tangenziale, diretti all’Union Park.
Il traffico scorreva pigro, era un magnifico pomeriggio, anche se il sole iniziava a scendere all’orizzonte. Mi abbandonai ancora alle mie fantasticherie su Jared, chissà se potevo convincere Jamie ad invitarlo con noi un pomeriggio. Il cuore accelerò all’idea e mi spuntò un sorrisetto emozionato.
Il tuono di un potente strombazzare di clacson fu l’ultima cosa che udii, mentre Jamie davanti a me si voltava e urlava qualcosa, il volto deturpato dall’orrore. Un enorme cargo di frutta esotica si era sganciato dalla matrice venendomi incontro, senza che ebbi tempo di formulare un pensiero coerente oltre ad: ‘accidenti! ’.


Urlo di sirene, urla di persone, poi il nulla, il bianco. Un bianco e soave galleggiare. Udivo una tenue melodia, non era proprio musica, più un piacevole suono che mi cullava. Non potevo muovermi, non volevo muovermi, ero in uno stato di benessere totale, non un muscolo mi doleva, ero morta.


Capitolo 4

Il risveglio

Non so per quanto rimasi in quello stato, persi ogni cognizione del tempo e dello spazio. Dicono che quando si muore tutta la vita ti scorra davanti agli occhi, non fu così per me, non vidi proprio nulla, tranne un fulmineo e avvolgente bianco.
Ora però si era aggiunto il freddo, eppure sapevo che eravamo all’inizio dell’estate, dov’ero? Non nel mio corpo, di quello non avevo più percezione, nonostante ciò percepivo il freddo, ero in coma forse?  Improbabile: grazie alle scoperte del gruppo Novax nell’arco di alcuni minuti un buon ospedale riusciva a farti uscire da qualsiasi tipo di ‘sonno’. Allora ero nel limbo da pochi minuti ( anche se mi sembrava una vita) e i soccorsi non erano arrivati?
Freddo, freddo pungente, improvvisamente un acuto dolore, com’era possibile? Il bianco si diradò, non del tutto, ma vedevo qualcosa attraverso la patina lattiginosa. Grigio, sì, grigio era il colore che predominava ora, acciaio per la precisione. Iniziai a percepire un forte odore chimico, di ospedale, di disinfettante, come potevo percepire odori? Poi vidi: Una luce azzurrina, pareti di metallo e una nuca calva. Se fossi stata nella normalità il mio cuore avrebbe fatto un salto per l’orrore, ma il mio cuore non era dove avrebbe dovuto essere: era lì immobile nel mio corpo morto, nudo, sotto di me. Vidi me stessa su un tavolo metallico, nessun lenzuolo a coprirmi, nessun materasso a rendere confortevole il mio sonno. Il braccio alzato dell’uomo si avvicinava al mio petto, nella sua mano qualcosa scintillava.
“Fermooooo!” gridai, pensai di gridare, non un suono si udì, mentre il bisturi continuava a scintillare nella mano che calava, come a rallentatore. Ma l’uomo rimaneva senza volto. Il mio di volto invece lo vedevo fin troppo bene: profonde occhiaie bluastre cerchiavano occhi chiusi, la mia carnagione pallida, ora aveva un ché di spettrale. I capelli scompigliati erano appiccicati di sangue raggrumato, mentre un livido nero, come non ne avevo mai visti, copriva metà del viso.
“Fermoooo” gridai ancora. Se avessi potuto avrei pianto di rabbia, paura e frustrazione, se avessi potuto l’avrei picchiato. Dolore, percepivo il mio corpo ora, i piedi per la precisione, gelidi e immobili.
“Ahhhhhhhhhhhh” gridai con tutta me stessa.
“Ahhhhhhhhh” rispose il medico legale, fissando terrorizzato la mano fredda e già bluastra, che stringeva il suo polso bloccando il bisturi.
Rantolai, il mio respiro faceva un male terribile e produceva un suono raccapricciante, la gola sembrava troppo stretta per far passare l’aria. Iniziai a battere debolmente i piedi annaspando. Il corpo era trafitto da milioni di aghi, il dolore era insopportabile, ma sentivo il cuore battere nel petto forte come non lo avevo mai udito.
Il medico si riscosse, gli occhi sbarrati, le mani tremanti, ma mi applicò la maschera dell’ossigeno. L’aria entrò, dolce come miele per i miei polmoni avidi.
Parlava concitato, mentre io chiusi gli occhi stremata.
“Si, vi dico che è viva, mandate subito il curatore Viviani oppure la O’ Grann”
Silenzio, poi la voce computerizzata parlò:
“Paziente numero 344.431 parametri vitali stabili, pressione 90/55, frattura della spalla destra e trauma cranico con consistente ematoma subdurale, prognosi un giorno di degenza”
Sentii il fruscio di una porta, avevo freddo, nessuno mi copriva? ero nuda diamine!
Aprii gli occhi e vidi altri due curatori che mi fissavano strabiliati.
“Ma com’è possibile?” disse la donna. “I computer non sbagliano: era morta, è morta cinque minuti fa, morte cerebrale, senza speranza!”
Il medico legale rispose con voce tremante: “Non lo so com’è successo, so solo che ho rischiato l’infarto, la ragazza mi ha afferrato il polso, sembrava… sembrava uno zombie!”
………..
E così divenni la ragazza del miracolo, nessuno sa come sia successo, mio padre pianse tutte le lacrime che aveva, prima per la mia morte poi per la mia ‘resurrezione’.

Io ero lì sballottata, visitata da tutti i curatori possibili, esaminata dai macchinari più sofisticati, nessuno capiva nulla, ma una fatto era certo, una volta rimosso l’ematoma con una sonda, ero sana come un pesce (a parte la spalla, il livido e l’invisibile buchino sul mio cranio). Potevo tornare a casa.


Capitolo 5

Primi giorni dopo la morte

Me ne stavo sdraiata nella mia stanza da secoli, ero annoiata, la spalla non mi faceva più male, il livido sul volto era sparito con un paio di applicazioni di ‘Emodermax’, ma un senso di disagio m’invadeva da quel giorno, inoltre ero furiosa con Jamie: né una olochiamata, né un misero messaggio, né tantomeno una visita, fortuna doveva essere il mio migliore amico.
 Katie mi aveva chiamato ogni giorno, anche se non avevo avuto coraggio di chiederle nulla, il mio proverbiale orgoglio me lo impediva, ma oggi sarebbe venuta a casa e in qualche modo avrei portato il discorso sull’argomento Jamie. Chiusi gli occhi e senza rendermene conto mi assopii.
BIANCO, ANCORA QUEL BIANCO AVVOLGENTE, MA STAVOLTA NON CAREZZEVOLE E PROTETTIVO, MI STRINGEVA, MI SOFFOCAVA, MI AFFERRAVA MANI E PIEDI STRATTONANDOLI. IL COPRO VIBRAVA SQUASSATO DA VIBRAZIONI INSOPPORTABILI. POI DI COLPO NERO, NERO COME LA PECE TERRIBILE, PENETRAVA DENTRO DI ME STRAPPANDOMI L’ANIMA.
URLAVO, MA NON AVEVO VOCE, LO RESPINGEVO CON BRACCIA INESISTENTI, ERO PERDUTA, ERO MORTA, MORTA DAVVERO.
“Ehi ciao!” qualcuno mi svegliò di soprassalto. “Ops, scusa, non sapevo dormissi” continuò Katie, abbassando inutilmente la voce.
Si avvicinò stampandomi un bacio sulla guancia. “Come stai? Come ci si sente ad essere morta?” chiese, col suo consueto modo diretto. Ma qualcosa d’insolito c’era: non indossava gli occhiali. E a dirla tutta era più carina del solito.
“Ti sei fatta le sopracciglia?” chiesi un po’ frastornata.
“Biscotti extra cioccolata, thè e latte” esordì Joe entrando con un vassoio.
“Posso benissimo alzarmi e venire di là” replicai. Stava diventando peggio di una mammina premurosa, non sopportavo il suo nuovo modo di fare mieloso, l’avermi quasi perso aveva peggiorato il suo istinto di protezione.
‘Abbasso il tavolo da parete’ annunciò George. Un attimo dopo un’allegra tavola era bandita nella mia cameretta.
Mentre Katie sgranocchiava biscotti alla velocità lampo, raccontandomi la sensazionale popolarità che mi era stata attribuita dopo la mia ‘quasi-morte’, presi coraggio e chiesi:
“Sentito Jamie?”
“Chi?” chiese sorseggiando il thè.
Proprio non la capivo, la notorietà le aveva dato alla testa, ora snobbava Jamie? Loro due non erano mai stati ottimi amici, si frequentavano perché avevano me in comune, ma arrivare a questo…
“Jamie, dai Katie, Jamie D’Anson” dissi sbuffando.
“Boh, da quando ti frega di quello stronzetto?” disse con noncuranza.
“Cosa?” mi alzai di scatto sentendo un dolore sordo pulsare nella testa, tutto girò, mi aggrappai al tavolino facendo precipitare le stoviglie a terra.
Un attimo dopo giacevo nel mio letto, le gambe alzate e il mio Checkup personale che diceva: “Sbalzo di pressione tornato alla normalità, pressione 110 su 80 si raccomanda di non alzarsi precipitosamente, è ancora in convalescenza.”
Katie si scusò e se ne andò, io ero furibonda, appena Joe mi mollò attivai l’olophone al polso e dissi: “Jamie”
‘Utente non trovato, numero inesistente’
“Che?” sbottai ma che diavolo avevo fatto a Jamie, perché aveva disattivato il numero pur di non parlarmi? Lacrime di delusione e rabbia scendevano sul mio volto.
“Mondovideo” sussurrai al computer. Si accesero le finestre a disposizione, spostai le pubblicità e afferrai il programma locale che galleggiava sulla destra, me lo portai vicino al volto mentre tornavo a sdraiarmi.
“Ancora proteste per l’abbattimento del secolare baobab nel Peterson Park”
Mi sedetti di scatto mentre l’immagine si dissolveva scontrandosi con la mia testa “Ma che cavolo?” dissi ad alta voce, quello sembrava proprio l’Union park, l’enorme baobab l’avrei riconosciuto ovunque. Non avevo mai sentito parlare di un Peterson Park, a dirla tutta l’unico Peterson che conoscevo era l’addetto alla manutenzione di George. ‘non essere paranoica Marie, ci saranno centinaia di Baobab e centinaia di parchi nell’Union of states”
“Sconti da Mcdriver: pizzaburger in offerta 5 Uniondollars’, disse una voce pubblicitaria azionata per sbaglio con la mano. Che schifezza si erano inventati? Pizzaburger: sembravano due spesse fette di pizza con dentro carne e salse. Feci una smorfia disgustata e mi alzai, avevo la nausea e la sensazione sempre più insistente che ci fosse qualcosa che non andava.
“Joe?” urlai.
“Sono papà tesoro” si affacciò Joe contrariato, sì decisamente non lo sopportavo più.
“Dov’è il Peterson Park?” chiesi ignorando il suo commento.
“Marie! È a tre isolati da qui, mi prendi in giro?”
Sì, decisamente qualcosa non andava, la mia morte aveva avuto conseguenze sul mio cervello, dovevo vedere un curatore, subito.

Capitolo 6

Piccoli-grandi cambiamenti

Mi alzai. Dovevo uscire, dovevo capire se ero pazza, vedere con i miei occhi se tutto era al proprio posto, ma soprattutto avevo bisogno di una boccata d’aria fresca, avevo bisogno di sentirmi accarezzare la pelle dal vento, sentire gli odori dei venditori di hot dog e di frittelle con lo zucchero, volevo sentirmi viva, perché continuavo a sentire sul collo il fiato buio della morte.
Mi affacciai di soppiatto alla camera di mio padre. Mi irrigidii vedendolo seduto sulla poltrona, occhi chiusi, gambe sollevate dal piccolo fly-pouff che gli avevo regalato per il compleanno e… dettava la sua storia. Le parole si componevano fluttuando nell’aria formando una lunga pergamena, mentre una penna stilografica scriveva. Almeno aveva impostato il programma ‘scrittura antica’, qualcosa dell’amore per le tradizioni era rimasto in quel nuovo Joe.
Il pannello sul muro scivolò silenzioso alla lieve pressione delle mie dita, scelsi e infilai un paio di scarpe comode dalla chiusura incrociata e scivolai fuori di casa.
L’ascensore in un attimo mi portò dall’ottantatreesimo piano all’esterno. Sorrisi soddisfatta: stessi rumori del traffico, stesso odore della mia città, stessi droni a pulire, fare manutenzione di strade e giardini. Respirai a pieni polmoni, per la prima volta da giorni riuscii a mettere da parte quella sensazione di disagio.
“Togliti di mezzo imbranata!” una voce mi gridò alle spalle. Feci appena in tempo a scostarmi che una folata di aria tiepida mi fece arretrare ulteriormente. Un ragazzino con un casco dorato si girò fulminandomi con lo sguardo, alzò il dito medio, mentre io fissavo una diavoleria che non conoscevo: un getto d’aria simile a quello delle bici partiva dal retro di una fascia fissata sul torace, in corrispondenze di una sfera trasparente, sistemata tra le scapole. Rimasi inchiodata al muro, il respiro affannato, gli occhi sbarrati che saettavano da una parte all’altra,  la sensazione di terrore che tornava ad attanagliarmi.
Andai alla Union University.  Almeno il computer mi riconosceva: “Matricola 10.999 Marie Katrine Callagan. Bentornata Signorina Callagan è in corso la lezione di storia dell’Unione planetaria, fa ancora in tempo ad assistervi, è nei cinque minuti di tolleranza”
Attraversai la soglia diretta allo schermo informazioni. Digitai il nome di Jamie. “Nessuna corrispondenza trovata” disse la voce elettronica. Una morsa mi strinse lo stomaco facendomi provare un impellente senso di nausea. Andai nella sala relax, vidi subito Katie, chiacchierava con un gruppo di ragazze, ochette per la precisione, anche oggi niente occhiali, capelli sciolti e un improbabile vestitino argentato con lo spacco a zig-zag. Mi avvicinai con una smorfia di disgusto.
“Ehi Marie!” gridarono in coro quelle lì, notandomi. Mi bloccai, incerta su da farsi: volevo parlare con Katie, ma quelle sgallettate preannunciavano domande cui non volevo rispondere. Mi raggiunsero, feci un sorriso di circostanza e strattonai Katie tirandola per il gomito.
“Come ci si sente ad essere morta?” “È vero che hai quasi pugnalato il medico?” “Vero che ora vedi le persone morte?” chiesero contemporaneamente tre voci. Mi guardai intorno senza rispondere, tutti mi fissavano parlottando sommessamente. Era orribile. Mi innervosii, spinsi Katie nel punto più isolato della sala.
Ci sedemmo ad un tavolo. Lei mi fissava come fossi malata terminale, o peggio, come se fossi pazza.
“Ehm, mi sono informata su Jamie” disse con tono indifferente, forse tanto per dire qualcosa.
“E?” chiesi sulle spine.
“Credo si sia trasferito alla West University, o qualcosa del genere”.
Mi alzai di scatto, ancora una volta mi mancava l’aria, mi girava la testa, e rischiavo di aumentare la mia notorietà vomitando sul liscio pavimento cristallizzato. Corsi letteralmente via, mi fermai solo al parcheggio. Salii sulla mia nuova, sicura,  iperbike fiammante.  Joe non aveva badato a spese nel suo nuovo comportamento da chioccia.
Sfrecciai nel traffico e solo cinque minuti più tardi ero sotto casa di Jamie. Un olo-cartello in un fast food sotto casa sua mi colpì: ‘Pizzaburger e colathè in offerta 5 Uniondollars e aggiungendone uno pataroll in omaggio’, Non conoscevo neanche uno di quei cibi. Mi fermai a leggere il menù, oltre al pizzaburger trovai altre tre pietanze sconosciute, il mondo culinario avevo lanciato nuovi prodotti tutti mentre ero malata? Scossi la testa, ormai rassegnata a trovarmi in un incubo, e proseguii.
Presi respiro, combattevo con l’orgoglio, ma… volevo sapere!
Suonai.



Capitolo 7

La verità su Jamie

“Sali” La voce di Jane, la mamma di Jamie, era strana, roca.
 Una brutta sensazione s’impadronì di me, fu come se il buio dei miei sogni divenisse reale, tutto girò, ancora. Mi poggiai alle pareti dell’ascensore, le linee dritte dell’ascensore divennero curve, le mani di fronte ai miei occhi erano ondeggianti, disumane.
Misi la testa tra le braccia tese sulla parete e vomitai.
‘Accelerazione battito cardiaco, rigurgito del contenuto dello stomaco, rivolgersi ad un curatore’ disse il mio auricolare. Intanto sentivo confusamente il programma del palazzo annunciare:
‘Le unità di pulizia sono pronte’
“Grazie” risposi frastornata. L’ascensore era arrivato, uscii mentre i droni di pulizia si accingevano ad occuparsi del disastro che avevo combinato.
Jane non stava meglio di me: profonde occhiaie, occhi gonfi e rossi, era in pigiama, forse malata.
“Salve signora Danson” Lei non rispose. “C’è Jamie?”
Alle mie parole sbarrò gli occhi fissandomi come fossi un mostro, si sorresse allo stipite della porta e iniziò a singhiozzare. Io ero letteralmente sconvolta.
Non sembrava la donna simpatica che tante volte mi aveva offerto la merenda, era l’ombra della persona che conoscevo.
“Entra” disse scostandosi per lasciarmi passare.
Almeno lì tutto era come ricordavo, il salotto accogliente e luminoso era rassicurante. Mi sedetti sul divano rigida, Jane si accomodò su una seggiola di fronte a me.
 “S-sei un’amica di Jamie?”
Sgranai gli occhi, doveva stare davvero male per non riconoscermi.
“Ehm, sono Marie” risposi sentendomi sciocca.
“Marie?”
“Jamie è in casa?” chiesi spazientita. Vidi le mani contrarsi sul bordo della seggiola.
“No, lui … non è qui. Eri la sua fidanzatina?”
Arrossii fino al midollo e iniziai davvero ad essere seccata, mi alzai, ero stufa di quella situazione, volevo andarmene. “Signora sono Marie, Marie Callagan, sono sempre qui a casa sua, possibile non mi riconosca?”
Lei sembrò soppesare le mie parole, poi senza motivo si arrabbiò:
“Tu… piccola impostora, ti sei divertita a giocare col mio dolore?”
“Cos…? signora io…”
“Fuori! Fuori da questa casa! non ti conosco, non sei mai stata qui, non ti conosceva nemmeno Jamie, non ti vergogni? Via! Vattene!”
Gridava fuori di sé, io ad ogni parola facevo un passo indietro, poi finii per voltarmi e iniziare a correre.
Scappai più veloce che potevo.
Tornai a casa, fortuna Joe non c’era. Mi gettai sul letto supina cercando di calmare i battiti e zittire quella voce che ruggiva dentro di me, dicendomi che tutto era tremendamente sbagliato.
Dov’era Jamie? Che la madre avesse preso così male il suo trasferimento ad un’altra università? Ma perché disattivare il numero? Perché nascondermi che sarebbe partito, diavolo era Jamie, il mio migliore amico!  Lacrime amare scivolavano dalle mie guance, prima lente poi sempre più veloci ed abbondanti, presto singhiozzavo inzuppando il copriletto.
‘Alterazione del batt..”
“Oh sta zitto e disattivati!” urlai lanciando il mio peluche contro il muro. George tacque, io iniziai a girare per la camera. D’un tratto mi bloccai, qualcosa aveva attirato la mia attenzione, non seppi subito cosa, un dettaglio fuori posto, un particolare che avevo registrato solo marginalmente. Mi avvicinai alla parete e il sangue mi si ghiacciò nelle vene, ero pazza?
C’erano tutte le mie cose lì, esattamente dove le avevo messe, le immagini che avevo scelto scorrevano alternandosi nel pannello sul muro, ma dove prima c’era Jamie ora… non c’era!
Le foto erano le stesse, ma non lo erano: in montagna nello scatto in coppia con lui ero con…un altro ragazzo. Rimasi immobile, gli occhi sbarrati che viaggiavano da una foto all’altra: al mare ero con Katie e l’altro braccio in cui nei miei ricordi tenevo sulla spalla di Jamie era ora piegato sul fianco. Era così per tutte.
“Uno scherzo” dissi ad alta voce, come per convincermene “uno stupido, macabro scherzo!”.
“George? Attivati, copia in memoria tutte le mie foto” gridai, uscendo.
Trovai Katie nell’aula studio.
“Guarda” dissi secca.
Attivai il riproduttore.
Lei osservò le foto, rigirandole e facendole scorrere tra le dita.
“Sono le foto che avevi in camera”
“Sì, certo Katie, ma non vedi che manca Jamie?”
“Cos’è una specie di cotta? Senti Marie, ho chiesto ancora in giro per trovare il suo nuovo indirizzo ma…quel che ho scoperto… ecco quel che devo dirti non è piacevole, soprattutto visto tutto questo interesse per quel ragazzo.”
“Kate sei scema? Jamie, il mio migliore amico!”
“No scusa Marie, ma sembri tu la scema, forse devi tornare da un curatore, dopo l’incidente non sembri più tu!”. Puntò i suoi occhi nei miei “La tua migliore amica sono io, con questo Jamie avrai parlato tipo tre volte al corso di letteratura, prima di eliminarlo dal tuo piano di studi, perché eri negata nei quiz delle citazioni!” Prese fiato, sembrava preoccupata, io non so cosa sembrassi, non capivo più nulla, poi lo disse, così, di getto, e io mi paralizzai:
“L’ho appena saputo Marie…Jamie è morto: investito da un cargo di frutta, nello stesso incidente che ha colpito te.”



Capitolo 7

Paul

Il fiato mi mancava, la mente mi riportò l’immagine di Jamie che si voltava e mi urlava qualcosa, lo sguardo terrorizzato, ma nei miei ricordi lui era avanti, di fianco al cargo, come poteva essere morto?
Dovevo essere impazzita non c’era altra soluzione. Entrai nell’Union Park, no anzi ilPeterson Parkcome diceva il cartello. La targa commemorativa diceva che il giardino era stato creato in onore del primo presidente dell’Unione Mondiale: Elisabeth Peterson per l’appunto. Scossi la testa, ormai nauseata da tutto, matta, ero matta senza rimedio: la mia testa mi diceva che il primo presidente era Montegri, il mio preferito, di origini italiane, avevo in mente il suo aspetto gioviale e molti dei suoi discorsi più famosi, com’era possibile?
‘Si siede?’ chiese il computer.
“Si” risposi.
Scelsi il mio posto preferito, vicino al laghetto con i cigni, almeno quello non era cambiato.
‘Qui va bene?’ chiese il computer.
“si” risposi ancora.
Il familiare rettangolo azzurro comparve galleggiando e si aprì davanti a me in una comoda poltrona. Mi sedetti, la cinghia si cinse alla mia vita, regolai l’altezza, galleggiando in alto, lasciandomi cullare dal vento.
Chiusi gli occhi sentendomi frantumata dentro: tutto quello in cui credevo non era reale, forse io non ero io, soffrivo di schizofrenia?
Il mio apparecchio olografico suonò una suoneria che non ricordavo di aver scelto. Attivai la risposta. Un volto semi-sconosciuto comparve davanti a me.
“Ehi! Mi ha chiamato Katie!” esordì il ragazzo. Realizzai che era Paul, quello delle foto.
“Ehm, ciao, non ho voglia di parlare” feci per chiudere, ma lui continuò:
“Sto partendo ora, tra venti minuti sono a casa tua”
Non avevo la minima voglia di parlare, ma forse, con un estraneo…potevo ragionare distaccatamente.
“Sono all’Union, ehm, al Peterson park, non ho voglia di tornare a casa”
“Ok, perfetto ti raggiungo”
                             ………
Mi ero assopita, per una volta non sognai né bianco, né nero, nulla. Aprii gli occhi sentendomi osservata.
Un volto occhialuto mi fissava da una poltrona comparsa accanto alla mia.
“Ciao” disse. E il suo sorriso gentile mi riportò indietro alle scuole medie. “Passeggiata?”
Annuii.
“Computer attiva percorso turistico, velocità molto lenta”
Le poltrone si avviarono, noi rimanemmo un po’ in silenzio. Dopo un po’ lui prese coraggio e disse:
“Come ti va lo studio?” Non aspettò risposta, continuò: “Io quest’anno ho tanta di quella roba tosta: fisica, chimica, matematica applicata e analisi” poi di colpo: “Mi sei mancata” Sembrava molto più timido di quel che ricordavo e anche un pochino… sfigato. Mi mossi a disagio sulla poltrona, cercando qualcosa da dire, non sapendo affatto cosa si aspettasse dalla nostra conversazione, a cosa fosse abituato. Poi mi decisi, tirai fuori tutto:
“Io… non so chi tu sia… o meglio lo so, ma ecco, i miei ricordi di te risalgono alle scuole medie”
Lui strabuzzò gli occhi, scosse la testa e tornò a fissarmi ancora.
“Mi prendi in giro vero?”
“No, purtroppo”
“Hai perso la memoria?”
“Purtroppo è qualcosa di molto più complicato”
Gli raccontai tutto, dal pizzaburger a Jamie, mi avrebbe preso per pazza ma non m’importava, mi sentivo meglio ad ogni parola che buttavo fuori.
Quando ebbi finito lui rimase in silenzio a lungo, poi scoppiò a ridere:
“Sul serio Marie? Il pizzaburger è il tuo piatto preferito! Davvero non lo ricordi? Andiamo” disse pigiando il mio pulsante di discesa insieme al suo “Si va al fast food!”
Sorrisi spiazzata, possibile non mi dicesse che ero da internare?
Tornammo indietro a piedi, lui mi prese la mano, io non la ritirai, sentivo la sua presenza amica come l’unica positiva in quell’ambiente ostile, forse proprio perché non avevo un ricordo di lui che discrepasse con il suo attuale modo di essere. Lo squadrai di nascosto: una zazzera castana, occhiali, come ne portava la Katie che ricordavo, un fisico asciutto. Camminava un po’ curvo, fissandosi i piedi, sembrava estremamente timido, evitava la gente, rispondeva a monosillabi, ma non con me, dovevamo essere davvero amici. Sorrisi entrando nel locale adocchiando l’immagine del cibo che avrei assaggiato a breve.
“Mmmm, delizioso, buonissimo” dicevo a bocca piena, mentre le salse gocciolavano sulle mie mani, cadendo nel piatto. Lui se la rideva soddisfatto sorseggiando una cola.
“Visto? Sei sempre tu!” Sembrava gongolante. “Allora, direi che dobbiamo metterci a scartabellare in rete, tirerò fuori un po’ di saggi di un mio professore, è ovvio che le vie da percorrere sono due: la tua mente e…il tuo corpo.
Mi soffocai con il boccone “il mio corpo? Cosa centra ora il mio corpo?”
È qualcosa a cui penso da quando mi hai raccontato i fatti, io non credo tu sia pazza.
“Oh, menomale!”
“Io credo che tu provenga da…da qualche altro luogo”
Lo guardai sbalordita, scossi la testa e addentai un altro boccone.
“Ora sembra che il pazzo sia tu” risposi.

9 capitolo Bivio

Eccoci arrivati all'ultimo capitolo da votare, mai scelta è stata così importante: tre finali completamente differenti tra cui scegliere!


LA PROBABILE VERITÀ

“Cos’hai da perdere?” aveva detto Paul, questo era bastato a convincermi, già, cos’avevo da perdere?
Il professore ci aspettava, sembrava impaziente:
“Ti va di raccontarmi tutto?”
Quand’ebbi finito disse:
“Allora diamo un’occhiata” lanciai un’occhiata a Paul, il medico comprese.
“Lì, nel lettino attiviamo lo schermo” Annuii.
“Cartella clinica J700513 Marie Callagan” disse all’unità centrale.
I miei dati di una vita comparvero galleggiando sopra di me, che ero stesa in biancheria intima col fiato affannato e il cuore galoppante.
“Vedo che hai rimosso le tonsille ad 8 anni”
“No” risposi.
Il professore mi fece aprire la bocca illuminando l’interno, vidi i suoi occhi sbarrarsi:
“Screening completo” chiese al computer. Una luce azzurrina mi fasciò, salendo dai piedi al capo.
‘Rottura del menisco sinistro, rimozione dell’appendice, primo ciclo a 12 anni, denti sani, vista 11/10’
 “Incredibile!” sussurrò il professore. Mi fece rivestire ed accomodare su una comoda poltrona, rimuovendo la barriera, cosicché tornai a vedere Paul.
Mise sulla mia testa dei sensori, abbassò le luci.
“Ora cerca di mandare i pensieri alla deriva, la musica che dovresti iniziare a sentire a breve ti aiuterà a rilassarti, non devi fare nulla, penserà a tutto il computer”
Chiusi cli occhi, li riaprii dopo qualche minuto quando udii il ‘No!’ di Paul anche attraverso la musica isolante. Vidi immagini sparse dei miei ricordi che galleggiavano per la stanza. Gli occhi sbarrati di Paul mi colpirono come pugnali, terrorizzandomi.
Le luci si riaccesero, tornammo alla scrivania.
“Non so come dirlo in modo semplice né come spiegarlo, ma, tu non sei Marie Callagan”
Piantai le unghie nel bracciolo della poltrona “Cosa?”
“Diversa storia medica e… i tuoi ricordi, vuoi dirlo tu Paul?”
“Molte cose non concordano con la realtà, per esempio tuo padre è avvocato, non scrittore”
Mi mancava il respiro, per un attimo fu come tornare all’obitorio, l’incubo non avrebbe mai avuto fine?
“Inoltre…Ehm, ecco, nei ricordi appena visti hai perso tua madre a 8 anni, ma per quanto ne so tua madre è viva e vegeta, i tuoi sono divorziati”.
Era troppo, gli mollai un ceffone scappando più veloce che potevo, lontano da tutte quelle assurdità.
Passai dieci giorni nell’oblio, mangiavo appena, dormivo tanto, sognando che era stato solo un incubo, ma continuavo a svegliarmi in quel maledetto posto.
Paul era venuto a trovarmi ogni giorno. Ascoltavamo musica, guardavamo vecchi olomovie e parlavamo, mai di quella visita medica, fino a quella sera.
Si sedette sul mio letto, scalzo, gambe incrociate e capelli spettinati, d’un tratto non mi sembrò più così sfigato, era intelligente, simpatico, con un fascino tutto suo.
L’ologramma attivato dal suo proiettore quasi mi finì in faccia, scattai spaventata dai miei stessi pensieri.
“Ho studiato molto, tutte le notti” iniziò. “Guarda qua: teoria delle stringhe…”
Paul parlava, io lo ascoltavo la sua voce, poco le parole.
“ I nodi si verificano quando due o più linee temporali convergono. A volte le realtà di una linea temporale filtrano nell’altra, venendo percepite da ambedue le realtà.”
Parlava mostrando immagini di doppi coni e simboli dell’infinito.
“Senti Paul, ammesso che possano esistere cose del genere, qui non si tratta di piccoli influssi, qui è tutto sbagliato!”.
“Ci stavo arrivando: mi sono fatto un’idea, sei pronta?” non aspettò la mia risposta. “Nel momento dell’incidente ti sei trovata in un nodo temporale, due realtà parallele si sono sovrapposte in quell’attimo: una realtà è quella che ricordi tu, in cui Jamie era il tuo migliore amico, una è questa in cui vi conoscete appena. In quell’attimo tu sei sbalzata qui e ti sei salvata, mentre Jamie non ce l’ha fatta. Sono quasi sicuro, da quel che mi hai raccontato che nell’altra realtà… ecco… tu… sia morta. Il perché invece di morire tu sia finita qui… non lo so e non credo riusciremo mai a saperlo”
Le parole mi colpirono come un macigno, strabuzzai gli occhi e percepii ancora il bianco, poi il buio che mi strappava via dal mio corpo. Tutto tornava al proprio posto: Katie senza occhiali, Jamie, il pizzaburger, Paul.
Il mio labbro inferiore tremava, lottai per non piangere: non sarei mai potuta tornare a casa, perché se anche avessi trovato il modo, sarei andata incontro alla morte.
In quell’attimo mi sentii terribilmente sola, non conoscevo veramente nessuno: mio padre, Katie, non avevo Jamie. Poi lo guardai, lui, lì impacciato, goffo, ma eccitato dalla scoperta, infervorato dalla passione per i suoi studi. Avevo Paul, avevo la mia vita, avevo un’altra possibilità e non l’avrei sprecata piangendomi addosso.
D’istinto afferrai la sua mano, me la posi sulla guancia assaporando la dolcezza di quel contatto. Tremava un po’. Alzai lo sguardo sui suoi occhi castani, dalle ciglia scure, un momento dopo ero tra le sue braccia e le nostre labbra si cercavano.
Sentii la potenza di quell’attimo, chissà se avrebbe generato un altro nodo temporale? Mi aggrappai ancor più saldamente alle sue spalle, no, non volevo andarmene


finale 1

Il mondo dall’altra parte

La figura scura si stagliava all’orizzonte ramato dal sole morente. Era giovane, ma claudicante, si fermò vicino al grosso abete ammirando il panorama, poi si chinò poggiando a terra qualcosa.
“Jamie!!!”
La voce alle sue spalle fece voltare la figura, il sole illuminò il suo bel volto giovane, che aveva una strana serietà, un’aria vissuta che lo faceva sembrare più vecchio di quanto fosse realmente.
“Ehi Katie!” salutò, tornando subito a voltarsi. La ragazza lo raggiunse arrancando per il ripido pendio. Si fermò accanto all’amico, lo sguardo fisso sui fiori poggiati sull’erba curata, ai loro piedi il marmo scuro e freddo era lì a ricordare loro quanto fosse dura e irreversibile la realtà.
“Marie Callagan 2057-2076” dicevano le lettere sulla lapide, posta nel punto più alto del Memorial Cemetery. Jamie sapeva che Marie non era realmente lì, aveva assistito alla cerimonia commemorativa in cui il padre aveva disperso le sue ceneri nel lago dell’Union park, ma quello era il luogo che avevano scelto per lei, dove poteva venire a ricordarla e pensare a come tutto poteva andare diversamente. Erano passati due mesi dall’incidente, ormai le lesioni, seppur gravissime, subite dal suo corpo, erano guarite, rimaneva solo un dolore alla gamba destra, frantumata dal peso del cargo, che gli era finito contro, sbandando dopo aver travolto la sua migliore amica.
La leggera brezza faceva svolazzare i capelli corvini di Katie e Jamie ne percepì il familiare profumo che lo rassicurò facendolo sorridere. Le prese la mano fissando l’orizzonte. Mai erano stati vicini come dopo l’incidente, lei era passata a trovarlo ogni singolo giorno, ricordando Marie e i bei momenti passati insieme tutti e tre.
D’un tratto il vento si alzò avvolgendoli e facendoli rabbrividire. Jamie si strinse più forte a Katie pensando che avesse freddo, ma le braccia s’irrigidirono bloccandosi, mentre gli occhi si sbarravano.
Gli era già capitato di fare strani sogni dopo l’incidente: si sentiva strappare dal proprio corpo avvolto in uno strano buio, quasi palpabile, oleoso. Si svegliava sempre urlando senza fiato e con un dolore straziante al petto. Una volta aveva sognato se stesso, steso su freddo metallo, morto.
Poi aveva sognato lei, in lacrime, terrorizzata e spaesata, ma viva, Marie. I curatori avevano detto che era stress post traumatico e che sarebbe passato presto e Jamie aveva creduto loro, non aveva motivo di dubitare delle loro teorie, fino a quel giorno. Sbirciò nella direzione di Katie e comprese che anche lei vedeva.
Marie era lì davanti a loro, sorrideva tenendo per mano un ragazzo sconosciuto, in mano un gelato tutti i gusti. Era lì accanto a loro, vicino al grande abete, ma non era realmente lì, sembrava eterea, irraggiungibile. Allungarono all’unisono le mani per cercare di afferrarla, lei li fissava sorridendo, si avvicinò allungando anch’essa le mani, gettando il gelato. I palmi si sfiorarono e sia Jamie che Katie percepirono un forte formicolio e un intenso calore. Non sentivano alcun rumore, ma videro formarsi sulle sue labbra le parole: “Sono ok” poi Marie portò una mano alle labbra lanciandogli un bacio. Un attimo dopo un’intensa luce bianca li avvolgeva stordendoli ed accecandoli.
Quando riuscirono a vedere qualcosa il sole era ormai tramontato, il vento svanito e loro erano soli sulla collina.
“Cosa… cosa pensi sia stato?” chiese Katie con voce tremante, mentre si sistemava gli occhiali sul naso.
“Non lo so, ma quella era lei, ne sono certo”
“Jamie…”
“Lo so, lo so, Marie è morta, ma tutte queste visioni ed ora… questo…”
“Cosa pensi in quella tua strana testolina?” chiese Katie poggiandogli un braccio sulla spalla.
“Non so, che magari sia in un posto…”
“Migliore? In paradiso?”  completò la sua frase, come faceva sempre con la sua parlantina esasperante, che Jamie aveva imparato ad amare nei lunghi pomeriggi silenziosi e cupi sotto le coperte dell’ospedale.
“Ma no, non so spiegarlo, ma è come se lei fosse viva, da qualche altra parte”
Le sue parole rimasero in sospeso, mentre si abbracciavano le prime stelle iniziavano a comparire in cielo. Infine Katie ruppe il silenzio:
“Mi è sembrato che dicesse ‘tutto ok’
“Sì, anche a me” sorrise Jamie, le scostò una ciocca dei lisci capelli dal volto dai tratti orientali.
“Forse vuole dirci di non essere tristi, ovunque lei… o la sua essenza sia” continuò la ragazza fissandolo con intensità.
“Già, lo credo anch’io” soffiò Jamie sulle labbra di lei. Le poggiò un bacio leggero, non riuscendo a credere neanche lui a quel che stava succedendo. La vita andava avanti, ovunque fosse ora Marie, ne sarebbe stata felice. Si chinò ancora e baciò Katie, mentre in un altro luogo, lontano eppur vicino, un’altra coppia di giovani leccava sorridendo l’unico gelato rimasto da dividere in due.







15 anni dopo......


Il viale alberato che conduceva al Peterson park, quello che nella mia mente si ostinava a chiamarsi Union park, non mi era mai sembrato così lungo. Maledissi la mia ostinazione ad incamminarmi a piedi con quel caldo tropicale, Paul me lo aveva detto e ridetto quella mattina: “ti accompagno io passando per andare al lavoro”
“Sono perfettamente in grado di fare una passeggiata da sola, non sono mica invalida!” avevo replicato piccata, come succedeva sempre più spesso da qualche mese. Ripensai a quelle parole trovandomi a metà strada, indecisa se tornare indietro o proseguire, sentendo degli strani dolori ai reni.
Decisi di proseguire, la strada da percorrere era la stessa e volevo godermi un po’ di relax nel mio posto preferito: il posto in cui avevo conosciuto Paul.
Dieci minuti più tardi arrancavo all’ingresso chiedendo una poltroncina all’unità centrale, che mi accolse.
Chiusi gli occhi, sudata zuppa e ormai in preda a forti dolori.
‘malessere registrato, contrazioni di intensità 4 rilevate, si procede a contattare un curatore o a trasferirla in clinica?’
“Non ora George” risposi alla voce nel mio auricolare “Avvertimi quando arriverò ad intensità sei” dissi congedandolo. Avevo bisogno di tempo per raccogliere le idee, per fare il punto della situazione e soprattutto per trovare il coraggio di affrontare ciò che mi aspettava. Una strana sensazione di malessere diffuso, che non aveva nulla a che fare con il dolore fisico, mi attanagliava. Da qualche giorno avevo iniziato ad avere incubi, il curatore diceva che era normale in gravidanza, ma sapevo che c’era qualcosa di più. Erano tornati: prima il bianco lattiginoso che mi teneva sospesa nel limbo dell’inconsapevolezza e per ultimo il nero che mi strappava lacerandomi dalla mia vita. Avevo paura, una paura tremenda, e quello era l’unico posto in cui riuscivo a sentirmi in pace con me stessa. I cigni nuotavano placidi nelle calme acque del lago, mi soffermai a pensare agli ultimi anni trascorsi, ero felice? Potevo rispondere tranquillamente di sì. A volte pensavo ancora a Jamie, il mio amico perduto, c’era stato un giorno, un attimo, qualche tempo dopo l’incidente, in cui mi era parso di vederlo, sentirlo, lui e l’altra katie, la vera katie, ma ormai la vera katie era la mia amica giornalista, con la quale avevo condiviso gli ultimi quindici anni della mia vita. Il mio mondo era questo, con Paul, con mio padre e… mia madre.
Sorrisi al pensiero della fortuna riservatami dal destino: avevo auto la possibilità di avere una madre ed era magnifica, indaffarata, sbadata e logorroica, nonché pessima cuoca, ma magnifica.
E mio padre, ancora non finiva di ringraziarmi per averlo spronato a coltivare la sua passione per la scrittura: era al suo terzo romanzo e passava tutte le sere a scrivere al vecchio computer che gli avevo regalato.
Sì, la mia vita era perfetta, anche se a volte rivedevo quell’attimo in cui avevo percepito le mani di katie e jamie, in cui gli avevo sussurrato che tutto era ok e quelle volte una malinconia incurabile mi pervadeva.
Un forte dolore mi riportò alla realtà, di nuovo quel maledetto nero che sembrava portarmi via le viscere, la testa girò, mi aggrappai ai braccioli della poltrona mentre sentivo qualcosa colare tra le mie cosce.
‘rottura delle acque , trasferimento immediato al Memorial hospital’ diceva George, ma sentivo la sua voce terribilmente lontana, nonostante fosse nel mio orecchio sinistro.
Riaprii gli occhi sentendomi lacerare da un dolore indescrivibile, intorno a me il vociare concitato di infermieri e curatori.
Urlai con quanto fiato avevo in gola, mentre il nero mi avvolgeva di nuovo turbinando attorno a me: “No!!!! Vi prego, non di nuovo, non ora!” sentivo la mia voce lontana, poi il dolore prevalse su tutto e non capii più nulla.
……………………..
“Buongiorno” la voce dolce di Paul mi fece aprire gli occhi, il dolore era svanito e con lui anche il buio, ma non la paura.
“Le bambine?” chiesi immediatamente, ed immediatamente seppi dallo sguardo di mio marito, che qualcosa era andato storto.
“Le bambine?” tornai a chiedere con urgenza.
“Jane sta bene: 2,200 kg” sorrise, di un sorriso amaro, poi tacque.
“E Jenny?” chiesi sentendo la mia voce strozzata. Lui continuava a tacere, mi sollevai a sedere afferrandolo per il collo della maglia. “Paul ti ho chiesto di Jenny” gracchiai sul suo volto cupo.
“Mi spiace tesoro, lei…” abbassò lo sguardo sulle mie mani serrate sullo scollo. “non ce l’ha fatta”
Mollai la presa di scatto, piombando pesantemente sul letto, la testa mi girava e percepii ancora un istante il turbinio e la sensazione di lacerazione. Svenni, almeno credo. Sentii Paul gridare, scuotermi , ma non riuscivo a rispondere.  Poi un attimo, tutto si fece chiaro, vidi erba verde appena nata, margherite e udii un pianto di bimba, un attimo ancora e vidi lei, seppi all’istante chi fosse. “è di là” Sussurrai appena riuscii ad aprire gli occhi. Paul scosse la testa, ma non disse nulla, forse pensando che fosse un modo per lenire il mio dolore. Portarono Jane, la strinsi forte al mio petto cercando di concentrarmi su quella nuova vita che avevo ricevuto e non su quella che avevo perso, lacrime copiose scorrevano sulle mie guance inzuppando la copertina rosa, con la quale era avvolta la mia unica bimba.
…………………………….
“Oh mio dio Jamie guarda!” Katie era corsa avanti e aveva raccolto qualcosa da terra, erano tornati alla tomba di Marie, come ogni anno, a portarle dei fiori e a ricordarla, pensavano spesso a lei, la loro amica del cuore, la persona che aveva unito le loro vite.
“Jamie!” gridò ancora Katie “Corri! È… una bambina!”
Jamie non credeva ai suoi occhi: tra le braccia di sua moglie, con la quale da anni provava invano ad avere figli, era accoccolata una neonata, che strillava a pieni polmoni.
“Chi può aver messo una bimba in un cimitero?” chiese Jamie osservando trepidante il piccolo esserino.

“Si chiama… Jennifer, Jenny…” rispose solo Katie, mentre fissava un punto lontano nell’orizzonte. Una strana brezza fredda si alzò nell’aria torrida dell’estate avvolgendo le tre persone, che non sapevano ancora di esser divenuti una famiglia.






Finale n 3
Vidi il cargo piombarmi addosso, come al rallentatore, mentre Jamie gridava qualcosa girandosi verso di me.
In un attimo piombai nel silenzio, tutto era avvolto nel bianco, il mio corpo sembrò galleggiare, sentivo sulla pelle la carezza del vento, anche se non potevo muovermi.
Improvvisamente davanti ai miei occhi chiusi comparvero immagini sfocate: la mia città, ma non proprio la stessa e… sì, me stessa. Le immagini scorrevano come su uno screensaver, ero io la protagonista di quello strano film: io sul metallo del tavolo di un obitorio livida e inerme, mortalmente pallida, poi io nel letto di un ospedale e io… mano nella mano con un ragazzo. Seppi subito il suo nome : Paul.
Io e Paul passeggiavamo, mangiavamo strani cibi, chiacchieravamo sul mio letto, ed io ridevo, ero felice ed appagata.
La mia bocca immobile sorrise nella mia mente alla vista di quelle immagini, poi però fu come se qualcosa afferrasse contemporaneamente le mie braccia e le mie gambe tirando forte. Per un tempo indefinito ci fu una sorta di tira e molla. Le immagini erano svanite, attraverso le mie palpebre chiuse percepivo ora il bianco rassicurante, ora il nero spaventoso e il freddo si faceva sempre più pungente.
Una voce giunse a riscuotermi, sembrava lontana anni luce:
‘Soggetto in ipotermia, interruzione battito cardiaco per minuti 1 e 13 secondi avviamento procedura di soccorso’
“mmmm” sentii la mia voce mugugnare, mentre un terribile dolore al cranio mi colpiva. Tutto girò, sentii che mi sollevavano e che venivo trasportata dai mezzi di soccorso.
“Jamie” sussurrai più e più volte, poi crollai svenuta, esausta, mentre nella bocca un forte sapore ferruginoso di sangue colava giù per la gola.
……………………………………………………………………….
Prima ancora di riaprire gli occhi seppi che tutto era passato: il mio corpo era al caldo ed era rilassato e senza alcun dolore. Percepii il contatto di una mano sulla mia, aprii le palpebre e vidi lui: Jamie, vivo e vegeto, senza nemmeno un graffio, che mi fissava con aria preoccupata.
“Stai bene? Mi hai fatto prendere un colpo!” iniziò subito Jamie, pallido come un lenzuolo.
“Mi gira un po’ la testa” dissi con una voce tanto fioca da sembrar che fossero secoli che tacevo. “E ho sete”
Jamie mi porse un bicchiere d’acqua fresca, che sorseggiai in silenzio per un po’.
“C-che mi è successo?” chiesi infine, mentre la mia testa era affollata di immagini che non sapevo se fossero vere o sogni.
“Sei stata operata tre ore fa, tutto ok, nessuna cicatrice rimarrà sul viso, ma ti assicuro che eri ridotta davvero male”
Toccai la morbida benda che copriva metà del mio volto e vidi che la stessa sorte era toccata al mio braccio sinistro.
“Ehi, ben svegliata!” entrò Katie e la mia mente sovrappose a lei l’immagine di una Katie alla moda e senza occhiali. Battei più volte le palpebre e Katie tornò ad essere la solita occhialuta e stravagante amica di sempre.
“Paul” sentii pronunciare le mie labbra.
“Chi?” chiese Katie guardando Jamie, come a chiedere se fossi ammattita, lui fece spallucce.
“Paul, te lo ricordi? Alle medie con me” insistetti.
Katie parve riflettere, poi esclamò: “Ah sì, lo ricordo: il secchione, non frequenta la facoltà di ingegneria fisica o qualcosa di simile?”
“Puoi trovarmi il suo numero?” chiesi. I due mi fissarono ancora, immobili e impacciati, poi entrò mio padre come una furia rompendo il silenzio:
“Oh Marie, hai deciso di farmi incanutire la chioma in un solo giorno?” mi rimproverò abbracciandomi, ma io continuavo a pensare a Paul, mentre potevo addirittura sentire il sapore delle labbra che non avevo mai assaggiato e l’odore della sua pelle. Non sapevo cosa esattamente fosse successo in quelle ore in cui ero stata incosciente, ma di una cosa ero sicura: dovevo trovare Paul, e riallacciare la nostra amicizia. Arrossii ammettendo che era qualcosa in più quello che realmente desideravo.
“Eccolo qui” diceva Katie porgendomi il suo olophone. “Trovato”
Il sorriso si allargò sulle mie labbra mentre mi schiarivo la voce pensando a cosa diavolo potevo dirgli dopo tutti questi anni:

“Pronto Paul?.....”