martedì 30 settembre 2014

L'ULTIMO DELLA CLASSE

Il ricordo che affiora

Te ne stavi sempre lì in disparte, immusonito e curvo sul banco, mentre gli altri scambiavano le merende o le figurine dei calciatori. Sempre col naso su quei libri ingialliti, che prendevi in prestito dalla biblioteca, sempre con quell’aria da chi è stato appena buttato giù dal letto.
Il maestro Fernando Arroviti ti aveva preso di mira per cinque anni, a volerti dimostrare che anche se leggevi e leggevi, se non sapevi venderti nel modo giusto, presentarti come si conviene, non saresti stato nessuno nella vita. E non perdeva occasione per dimostrare a te e noi quanto avesse ragione.
Immagini la scena? Ricordi? Lui che improvvisamente molla gesso e cancellino e si dirige verso di te a grandi falcate, lo senti arrivare, troppo tardi scatti sull’attenti poggiando le spallucce sulla seggiola. Ti afferra la zazzera spettinata e tira forte, a farti lacrimare, senza proferir parola, mentre noi tutti tacciamo spaventati. Qualcuno a dire il vero sogghigna.
Il maestro Arroviti ti pigliava poi per l’orecchio facendoti alzare e buttandoti nell’angolo per il resto della mattina, mentre scuotendo il capo canuto prendeva con due dita, come fosse infetto, qualche tuo libro di avventura, che leggevi nascondendolo sotto il tomo di latino o algebra.
Carrisi, dell’ultimo banco, si girava appena poteva per sbeffeggiarti, ma tu guardavi attraverso il suo corpo flaccido e unto di ciambelle e bomboloni, come fosse invisibile. Era questo più di tutto che spaventava alcuni di noi e faceva infuriare altri, come il maestro. Poi c’era un’esigua minoranza, me compreso, affascinata dal tuo essere così diverso e imperscrutabile.
Tutto ti scivolava addosso: insulti, umiliazioni, percosse, tu avevi sempre la stessa faccia seria. S’illuminava solo quando leggevi, infervorato nell’immedesimazione del racconto, nell’estasi del poter vivere una vita diversa, almeno con la tua mente, o quando correvi. Dio, come correvi, sembrava avessi fiamme dietro alle chiappe magre, che ti spingessero a metterti in salvo più veloce possibile.
L’immagine di te stampata, indelebile, nella mia mente è quella del tuo volto asciutto, pallido, dalle scure occhiaie, ma senza un filo di sudore sulla fronte ampia, sul viso un’espressione di trionfo e di pura gioia, mentre batti un branco di marmocchi correndo come un forsennato.
Luca Fiorini, la mente più acuta e ottusa al contempo che abbia mai conosciuto, dannazione e toccasana della mia giovinezza.  Tu, anima troppo sfuggente per essere rinchiusa e obbedire alle norme del vivere comune, tu che confinavi le tue sofferenze in un luogo così profondo da non farvi entrare nessuno. Tu, cui nessuno poteva davvero scalfire, tu che non chiedevi nulla agli altri, ma sapevi ascoltare.
Mi hai incontrato d’estate, prima dell’inizio delle lezioni, nuovo del paese e della scuola ti accingevi ad acquistare i libri necessari giù all’emporio del Franchi. Eri con tua madre, vestita a lutto dal velo sulla testa al lungo vestito di moda forse cent’anni prima. E tu bimbetto rattoppato e malandato, con le spalle curve ti fissavi le scarpe vecchie, ma lucidate di fresco, almeno due misure più grosse.
Ricordo lo scappellotto di mia madre, mentre facevamo la fila, a ricordarmi che non stava bene fissare le persone.
“Come ti chiami?” ti chiesi due giorni dopo fuori dalla chiesa, mentre mettevo in tasca le bilie appena vinte e mi avvicinavo all’ombra dei pioppi, vicino alla fontana, dove eri abbarbicato con un librone in mano.
“Come ti chiami?” ripetei iniziando a credere che fossi sordo. Il tuo capo rimase chino sul libro, il tuo volto impassibile, solo il tuo piede sinistro si mosse: avanti e indietro, poi iniziò a fare dei movimenti circolari. Sembrava la coda del gatto quando lo infastidisci.
 “Lascialo perdere è ritardato!” urlò Granietti dietro le mie spalle.
Potevo andarmene, forse avrei dovuto, ma rimasi, affascinato da quella strana creatura che eri.
“Che leggi?” chiesi come ultimo tentativo.
Rimasi lì col fiato sospeso fino a che tu finalmente alzasti il capo e mi fissasti perforandomi con i tuoi occhi indaco.
Mi hai porto il libro, ancora tacendo ed io lo voltai per osservare la copertina:
‘L’isola del tesoro’ lessi e sorrisi, mi piaceva il titolo.
Dopo avermi fissato a lungo, più di quanto la normale convenienza sancisca, hai sorriso di rimando, il più strano sorriso che abbia mai visto: solo un lato della bocca si mosse, mentre l’altro rimase immobile, come di cera, gli occhi poi rimasero gelidi, freddi e impenetrabili, profondi e imperscrutabili.
“Io mi chiamo Salvatore e tu?” insistetti un po’ a disagio.
“Luca” finalmente la tua bocca si aprì mostrando tre denti mancanti. Chissà come questo ti rese più umano ai miei occhi di bambino e iniziai a rilassarmi arrampicandomi sul bordo della fontana insieme a te.

Quel giorno tra tanti

La giro e la rigiro tra le mie vecchie mani curate, che la fortuna mi ha dato di poter usare in modi diversi dalla fatica fisica. La tua foto sbiadita suscita in me ricordi ed emozioni, che credevo sopite. Poteva andare diversamente? Potevo fare di più? Sono quesiti vuoti, eppure mi tormentano ancora.
Polvere e sangue compaiono davanti ai miei occhi stanchi, mentre la mia mente manda in onda, per l’ennesima volta, infiniti fotogrammi di ciò che è stato.
Uno fra tutti, chissà perché proprio quell’episodio tra i tanti, mi tormenta:
Tu disteso. Occhi fissi, gelidi, che la mia colpa percepiva accusatori, mi fissavano, mentre ti picchiavano duramente. Io lì immobile, la mia cartella di cuoio scuro stretta tra le braccia, illeso e codardo, tacevo tremando e cercando di non pisciarmi sotto.
“Ehi finocchi!” aveva gridato Carrisi.
Mi girai di scatto, gettando il mazzo di fiori che avevamo raccolto per tua madre, costretta a letto da giorni per l’aggravarsi di un’influenza.
Tu invece ti voltasti lentamente, lo sguardo puntato verso i fiori sparpagliati sulla strada di terra rossa. Ricordo che non un fiato usciva dalla tua bocca, l’espressione del tuo viso immutabile, ma ti chinasti a raschiare i fiori dal terreno.
“Dico a voi femminucce, belli i fiori!” sghignazzava e dal nulla si volatizzarono gli altri due della sua banda: Granietti il rosso e Palumbo lo spilungone. Il cuore martellava nel mio giovane, impaurito petto, mentre tu rimanevi impassibile.
“Ahaha, guarda che femminucce” disse quello alto e allampanato indicando i fiori.
“Non sono mica miei” mentii io, codardo.
“Perché te ne vai in giro con questo ritardato?” chiese Granietti. I suoi occhi piccoli, diabolici, mi scrutarono e sentii un conato di vomito salire in gola.
Carrisi, così senza alcun preavviso, sferrò un calcio sul tuo sedere facendoti cadere lungo disteso.
Poi diede a me uno spintone.  Indietreggiai terrorizzato:
“Non li ho raccolti io, non li ho raccolti io, ma il ritardato!” mentii ancora, crudele, ma lui mi spinse ancora finché sentii il bordo del canaletto di scolo sui miei talloni.
Si avvicinò il rosso, mi girò e mi afferrò da dietro, immobilizzandomi.
Carrisi mi sferrò un pugno, poi un altro.
“Crepa finocchio!” ringhiava. Piangevo disperatamente e urlavo, non riuscendo a trattenermi. Poi ti vidi con la coda dell’occhio, lì immobile, i pugni serrati ai lati dei calzoncini corti, per la prima volta la fronte era corrugata in un’espressione rabbiosa. Per la prima volta compresi che tenevi a me. Sentimmo tutti un ringhio animalesco, un attimo dopo il tuo esile corpicino si avventava contro i tre, menando colpi e mordendo come un animale.
Ne approfittai per svignarmela, correndo e piangendo. Una volta lontano, mi nascosi dietro un masso sbirciando timoroso.
I tre, inizialmente presi di sorpresa, non reagirono, incassando le botte, poi si riscossero. Poco dopo eri a terra, tre contro uno, a massacrarti.
Io lì imbambolato, avrei voluto intervenire, ma non ne ebbi il coraggio. Scappai, più veloce del vento, a cercare qualcuno, qualsiasi persona potesse aiutarti. Venne Santo, il contadino, la zappa in spalla, mi seguiva borbottando:
“Che diamine succede stavolta? Sembra ti abbia morso una tarantola ragazzo, spera che sia grave davvero, o ti prendo a calci nel culo, ho da lavorare io”
Lo trascinavo singhiozzando, tirando la mano terrosa, ruvida e callosa nella mia tenera di bimbetto.
Da lontano vidi il tuo corpo disteso e la terra imbrattata, iniziai a piangere di nuovo, pienamente convinto che fossi morto.
“Ma che cazzo succede?” sbottò Santo allungando il passo.
Quando fummo abbastanza vicini, notai con sollievo che le tue gambe battevano ritmicamente il terreno, un solo occhio spalancato, l’altro gonfio e chiuso, ma erano occhi vivi.
Il sangue colava dal naso e dalla bocca, lividi ed escoriazioni ricoprivano tutto il tuo corpo, i vestiti laceri, inzuppati di sangue.
Puntasti lo sguardo su di me, mi si fermò il cuore per la vergogna e il dispiacere, poi il tuo volto si illuminò di un sorriso:
“Fiori. P-portiamo a mamma?”
Sorrisi di rimando tra le lacrime, mentre una grossa finestra di denti mancanti era comparsa sulla tua bocca.
“Forza ragazzo alzati” disse il signor Santo tirandoti su con inaspettata dolcezza.
“Che ti è successo?”
“Caduto” hai risposto e ti ammirai anche per questo: io avrei spifferato tutto, lagnandomi e mostrando la crudeltà dei tre teppistelli, tu invece non facevi la spia, mai, te la cavavi da solo, a modo tuo, quasi sempre incassando e alzando le spallucce magre. È pur vero che non amavi parlare e questo aiuta molto se si vuole tenere la bocca sigillata.
Da quel giorno la nostra amicizia è cambiata, prima eri tu, il mio schiavetto fastidioso, l’amico da nascondere in pubblico, di cui vergognarsi, il debole e strano Luca, che mi piaceva ma non volevo ammetterlo neanche a me stesso. Ora eri Luca, il mio amico e basta.


La verità tra le quattro mura

Ripercorro quegli anni e mi domando quanto la tua presenza abbia influito sul percorso della mia vita, su quello che sono diventato, su quello che potevo essere.
L’infanzia passò tutto sommato tranquilla: Ci preparammo per gli esami della quinta classe, tu avevi imparato ad accontentare il maestro, lasciandolo spesso a bocca aperta, ma non per questo ti disprezzava meno.
Ricordo i compiti di algebra, risolti alla perfezione, non un segno rosso sul foglio maniacalmente liscio e lindo. Ricordo anche come mi indicavi le risposte alle domande di storia: sapevi ogni singola frase a che pagina corrispondesse, ma continuavi a fare scena muta. Non eri bravo con le parole, soprattutto quelle parlate. Ormai avevo imparato a comprenderti anche se tacevi, ma non il maestro, che continuava a far finta che fossi stupido, continuava a considerarti una nullità, perché non seguivi le sue regole. Durante gli elaborati di lingua italiana te ne stavi a naso per aria a fissare il soffitto o a seguire con lo sguardo le mosche che volavano, non una riga compariva su quello spazio destinato a rimanere bianco. Ricordo soprattutto lo zero, rosso e sottolineato più volte che ti riportava dopo qualche giorno, con una smorfia di disgusto e rassegnazione. Ricordo anche i pianti di tua madre, quando veniva a portare le uova o le verdure dell’orto e provava a chiedere come andavi. Col tempo passava sempre più di rado, un po’ per la malattia, un po’ perché credo fosse stufa di giustificare i tuoi comportamenti.
Il tempo passò lesto, sempre al solito modo: a difenderci, tu da Carrisi e gli altri, io dai miei stessi pensieri egoisti, che mi spingevano ad andare a giocare a pallone invece che star lì con te a mangiar ciliegie acerbe, abbarbicati sui rami più alti del vecchio alberone, ai margini del cortile.
Più crescevo e più era difficile per me spiegarmi quanto fosse fantastica la tua mente e quanto fossi prezioso tu, alle scuole medie, che tu non riuscisti a frequentare, c’era da impegnarsi tanto con lo studio, c’era lo sport e il lavoro alla bottega di Rigolino, avevo meno tempo e tu sembravi sempre più goffo e chiuso. Ancor di più la situazione si complicò quando mio padre annunciò che avrei frequentato il liceo. Non avevo più tempo per nulla, studiavo come un pazzo e oltre alla bottega andavo da mio zio Bruno ad imparare il mestiere di avvocato, quello che mio padre aveva in serbo per me. M’incantavano sempre i meccanismi che aggiustavi, le cose che costruivi, gli esperimenti che facevi, ma avevo molto meno tempo per darti retta e a dirla tutta, m’infastidivano sempre più i commenti degli altri.
Le cose andarono abbastanza bene finché le tue stranezze erano in qualche modo tenute a freno, protette dal nostro mondo, ma poi il tuo mondo cominciò a incrinarsi, pian piano, a mano a mano che tua madre, che lo teneva in piedi, si spegneva lasciandoti al tuo destino.
Mi resi conto del peggioramento, suo e tuo, un pomeriggio che passai da te dopo il lavoro.
Entrai senza bussare, la porta aperta come sempre, all’interno buio e puzzo di chiuso e di piatti sporchi. Mi sembrò strano, perché tua madre teneva molto alla pulizia e la casa profumava sempre di limone, aceto e biscotti appena sfornati.
Tu eri lì al buio, a dondolare avanti e indietro, sembravi di nuovo quel bimbetto spaurito dei primi giorni di scuola. Davanti a te il piatto del pranzo, ma erano le quattro del pomeriggio. Mi avvicinai lentamente, frenato da una strana inquietudine, poi mi precipitai da te:
“Cristo Luca! Che cazzo hai fatto!” gridai afferrando uno strofinaccio per fermare l’emorragia.
“La c-carne” ti giustificasti, pallido in volto, gli occhi cerchiati, chissà da quanto eri lì.
“Dov’è tua madre?” chiesi guardando la carne carbonizzata nel piatto.
“Letto” rispondesti dondolando sempre più forte.
Mi alzai a controllare, tua madre giaceva nel letto disfatto, le lenzuola aggrovigliate e il volto madido di sudore, mi avvicinai, scottava tremendamente. Un attimo dopo ero al telefono col dottor Decarlis, che si precipitò.
Tu scalciavi come un forsennato, lo mordesti più volte ringhiando e sbavando, ero stupito dalla tua reazione feroce e mi sentii in colpa per non essermi accorto prima del peggioramento.
Alla fine riuscì a somministrarti un sedativo e metterti i punti, poi si dedicò a tua madre, mentre io ripulivo la cucina dal tuo sangue e tu mi fissavi impassibile.
“Non ha parenti che possono aiutarlo?” mi chiese poi il dottore tornando in cucina.
“Non lo so, non credo”
“Bisogna trovare qualcuno perché la madre non ne avrà per molto”
“Ma come, non è la sua solita influenza? È molto delicata, si ammala spesso”
“No, non è influenza, non lo è ora e non lo era allora, cerca i parenti”
Ti fissai sbigottito, d’improvviso l’idea di perderti mi terrorizzava, tu lì inconsapevole e perso nel tuo mondo, senza possibilità di difenderti dagli altri e da te stesso.
Ma quattordici anni erano troppo pochi perché avessi davvero il potere di fare qualcosa.




l’inizio della fine

Ti portarono via, ma non fu per un lungo tempo, tua madre morì il mese successivo e ti rividi al funerale. Non piangevi, fissavi davanti a te, lontano mille anni luce. Mi avvicinai, timido, timoroso che non mi avresti riconosciuto. Ma il tuo volto s’illuminò di un sorriso infantile, quel sorriso storto che tanto amavo. Mi corresti incontro e io mi sentii scioccamente a disagio, mentre manifestavi troppo apertamente la tua gioia davanti a tutti. Vidi un paio di teste scuotersi e molti occhi abbassarsi imbarazzati, qualcuno parlottava e sentii una rabbia sorda, ma non verso le persone giuste, non verso chi ti giudicava, ma verso te, che mi avevi messo in imbarazzo.
Non ero più un bambino, volevo essere uomo e ci riuscii perfettamente, iniziando ad omologarmi alla massa, perdendo il coraggio di accettarti così: ti volevo bene, ma ti volevo cambiare.
Ti trasferisti in paese, dagli Altavilla che ti presero in affidamento. Mia madre diceva che non avrebbe potuto andarti meglio, anche se non condivideva la scelta dei coniugi Altavilla: avevano già una figlia e accogliere un ragazzo, un maschio, problematico oltretutto, non sembrava molto intelligente.
Avresti dovuto essere felice, eppure io ti ritrovavo sempre sui gradini della tua vecchia casa, sempre più chiuso in te stesso, sempre più distante.
E poi vennero un paio di occhi da cerbiatta ad annebbiare completamente la mia mente.
Si chiamava Emma, la tua sorellastra, due anni meno di noi, lunghi capelli corvini e occhi neri e luminosi che sembravano penetrarmi l’anima. Ricordo l’attimo esatto in cui la vidi per la prima volta. Era una domenica, lei studiava in città, in un collegio per ragazze da bene, ma tornava per le vacanze e talvolta per i weekend.
Tu eri seduto sul vialetto, tracciando segni sul terreno sabbioso con un bastoncino.
“Ciao Luca” ti salutai.
“Ciao” bofonchiasti tu, senza alzare gli occhi da un complicato disegno, sembrava un mandala.
“Ciao!” disse poi una voce sconosciuta. Alzai lo sguardo dal tuo disegno, di scatto, e quegli occhi scuri mi colpirono come un pugno allo stomaco. “C-ciao” balbettai.
“Io sono Emma”
“E-Emma…” ripetei come un imbranato, ricordo con vergogna di aver pensato di smetterla, che sembravo proprio te.
“Salvatore” dissi nel tono più deciso e maschile possibile. E in quell’attimo esatto fui perduto, lo fummo tutti.
 Tutto ha iniziato ad andare veramente a rotoli alla festa delle rose. da giorni ci pensavo, sognando d’invitarla a ballare.
“Che ne pensi di Emma?” ti chiesi mentre verniciavamo lo steccato di villa Claudia, lavoretto extra per pagare un abito elegante, coi pantaloni lunghi.
“Bella” rispondesti tu con il tuo solito cripticismo.
Sbuffai, da un po’ mi sentivo nervoso, irascibile e insofferente nei tuoi confronti, nei confronti delle tue stranezze.
“Non potresti dirmi di più?” sbottai.
Ti fermasti a fissarmi, poi il tuo mezzo sorriso storto comparve e vidi un luccichio negli occhi:
“La baci?” mi chiedesti infantilmente.
Scossi la testa tornando a pitturare, poi vidi con la coda dell’occhio che te la ridevi a crepapelle. Ti diedi uno spintone e risi anch’io.
Poi la festa arrivò, ce ne stavamo lì imbellettati e nervosi a bordo pista a guardare le coppie ballare. Avevi cenato da me per festeggiare il tuo compleanno, poi avresti dormito a casa mia. Eravamo usciti per la sagra di paese, tu continuavi a lisciarti la cravatta che era stata di tuo padre, quel gesto ripetuto stava lacerando i miei nervi già tesi.
“La vuoi far finita?” ti urlai contro, ma tu eri in una delle tue fasi ‘no’ e hai iniziato a dondolarti per cercare di scostare quel mondo troppo rumoroso da te, dai tuoi occhi e dalle tue orecchie.
‘Oh, no!’ pensai a disagio “devi piantarla Luca, davvero” ti rimproverai. Non finii la frase, la vidi a bordo pista, come noi, ma dall’altro lato, abito rosa confetto, capelli raccolti sulla nuca. Il cuore mi si fermò incrociando il suo sguardo,  gettai un’ultima occhiata al tuo corpo rigido, che dondolava come un pendolo, e ti ho mollato lì per correre da lei.
Danzai tutta la sera, lei mi concesse tutti i balli, ignorando gli altri pretendenti, ero euforico e mi dimenticai completamente di te.
Emma chiacchierava e sorrideva, con il suo profumo inebriante e le labbra lucide, che mi stordivano. Volteggiavamo nella pista tra centinaia di persone, come fossimo soli.
“Questo è l’ultimo ballo, alle undici devo rientrare, mi accompagni?”  disse infine. Proprio in quell’istante ti vidi: nella stessa identica posizione in cui ti avevo lasciato a dondolare, col volto impassibile, ma fissavi me, lo sapevo, lo sentivo, come sempre. Ne fui arrabbiato, portai via Emma, che non ti aveva notato, senza finire il ballo, mollandoti lì.
Nell’allontanarmi vidi Carrisi e la sua banda circondarti, esitai un momento, poi il profumo di Emma mi trascinò con sé e pensai: ‘se la caverà’.
La musica m’impedì di sentire le tue grida e non vidi che ti prendevi la testa tra le mani mentre urlavi, me ne andai felice ad accompagnare Emma sotto casa, sperando di rubarle un bacio.




Responsabilità

Arrivammo sotto casa, ero riuscito a tenerla per mano per tutto il tragitto e la sensazione della sua pelle contro la mia mi inebriava impedendomi di formulare pensieri coerenti. Camminammo in silenzio, io nervoso, lei invece sembrava allegra, perfettamente a proprio agio.
“Eccoci arrivati” sussurrò davanti al bianco steccato.
“Ehm, già” risposi io, titubante a lasciar andare la sua mano. Dovevo sfruttare il momento, farmi avanti, provare a rubarle un bacio, ma i piedi erano incollati al marciapiede e gli occhi non volevano sollevarsi dalle nostre mani unite. Passò un minuto, lento e inesorabile, poi lei d’un tratto, come risvegliandosi proruppe:
“Luca è con i tuoi? Non l’ho visto per niente stasera, deve dormire da te no?”
“Oh, sì, ecco … lui … sì è con i miei” mentii cercando di riportare l’attenzione a noi due e al bacio che volevo disperatamente. Ma ormai l’incanto era spezzato, Luca, sempre tu ad interrompermi con la tua ingombrante presenza, anche quando non eri fisicamente presente:
“Allora vai, dovresti essere con lui, ci teneva così tanto”
“Oh, certo, allora io… vado, buonanotte” mi avvicinai in un ultimo patetico tentativo di baciarla, lei però si girò lievemente porgendomi la guancia.
‘Meglio di niente’ pensavo trascinando i piedi sul selciato, mentre la musica della festa tornava prepotente a farsi sentire.
La calca sembrava aumentata intorno alla pista, ma io non avevo certo voglia di ballare ancora, mi avvicinai per cercarti così da potermene andare a letto il prima possibile.
Le grida e gli spintoni intorno alla piazza mi colpirono improvvise, facendomi capire che qualcosa era successo. Spintonai un gruppetto di ragazzi, improvvisamente scosso da un tremendo presentimento.
Riuscii a farmi largo tra la folla, calpestai qualcosa, buttai a terra lo sguardo, seccato, mi pietrificai: era una tua scarpa. Una vecchia immagine di te tra la polvere estiva mi colpì dritta allo stomaco, in un attimo seppi che era successo ancora e ancora io me l’ero svignata mollandoti lì.
Due uomini ti avevano issato su una panchina. Tu, immobile ma cosciente, spostavi lo sguardo terrorizzato da un volto all’altro. Lo sapevo che cercavi me, diedi qualche altra gomitata e ti raggiunsi, mortificato:
“Andiamo a casa Luca” ti dissi solamente. Tu mi accogliesti con un sorriso, senza dire nulla.
Hai infilato la scarpa e mi hai seguito zoppicando, reggendoti il fazzoletto sul naso grondante.
“È stato Carrisi e quella sua banda di teppisti vero?”
Dissi arrabbiato con me stesso e con quegli ignobili cretini.
“Sì”
“E tu non ti sei difeso?”
“No” rispondesti semplicemente.
“Insomma Luca, devi difenderti, potevi dare qualche pugno anche tu no? Lo farai la prossima volta? Ti insegnerò qualche mossa”
Cercai di essere positivo, nascondendo il mio pungente senso di disagio.

Il mattino dopo camminavo a testa bassa nel riaccompagnarti a casa, temevo la reazione dei tuoi genitori e soprattutto quella di Emma, speravo non si preoccupasse troppo, non eri un bello spettacolo per gli occhi.
Suonammo al campanello, mentre sbirciavo il tuo occhio nero e il labbro gonfio, come il naso, ancora incrostato di sangue.
Emma venne ad aprire, nonostante le mie preghiere che non fosse in casa, decisamente non era il mio giorno fortunato.
“Oh santo Dio! Che è successo? Che gli hai fatto?”
“No, io, lui … l’hanno picchiato”
Lei sbarrò gli occhi turbata e impaurita, poi capì:
“L’hai lasciato solo, per accompagnarmi!” gridò, era furiosa.
Abbassai il capo senza rispondere.
Lei si avvicinò, mi puntò gli occhi scuri dritti nei miei e mi schiaffeggiò. Non pensavo ad una reazione così dura: insomma non ero mica il tuo baby sitter!
“Che razza di essere spregevole sei?” continuò ringhiandomi contro. “Vieni dentro Luca” disse, e senza aggiungere altro, ti fece entrare richiudendomi l’uscio in faccia.
Non vidi te né lei per due settimane, ogni volta che passavo i tuoi mi liquidavano dicendo che non eravate in casa.
L’estate avanzava e io mi sentivo solo e cupo, come mai prima.
Poi un pomeriggio vi vidi, due figure sedute sulla panchina di marmo davanti alla chiesa. In mano un gelato, sulla bocca un sorriso sereno, i capi vicini, chini a leggere un libro. Mi avvicinai di lato, fino a raggiungervi alle spalle. Iniziai a sentire la voce di lei, che leggeva senza tentennamenti, come chi è abituato e a proprio agio con i libri.
Il petto mi s’infiammò di gelosia: volevo essere io lì a leccare quel gelato ascoltando lei che leggeva per me, solo per me.
Scappai via, mi sembra di ricordare lacrime scendere sulle guance ancora imberbi, ma potrebbe essere frutto della rielaborazione dei miei ricordi, o della vecchiaia, non saprei, ma ero affranto, come mai prima di allora e lo fui a lungo, prima che la vita tirasse la palla al centro rimettendola in gioco, a modo suo.

Gelosia...





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Il mio umore altalenava dal furioso al malinconico, passai giornate intere con le mani ficcate nelle tasche, una sigaretta in bilico tra le labbra, masticando il mio risentimento.
Vi avevo rivisti tre o quattro volte, sempre insieme, sempre raggianti, quei sorrisi di Emma, rivolti a te e non a me, mi pugnalavano, l’anima rubando la mia naturale allegria.
Mio zio vedendomi sottotono mi chiese che avevo.
“È per una ragazza vero?” disse non ricevendo nessuna risposta.
Annuii e lui mi consigliò di mettermi in gioco e di mostrare il mio amore.
Ci rimuginai su e più assaporavo l’idea più mi sembrava splendida, in fondo il rivale eri tu, la sfida poteva risultare anche abbastanza semplice, il confronto impari, a mio favore.
Feci recapitare ad Emma quaranta rose rosse con un bigliettino con scritto solo: ‘perdonami’, senza firma.
La incrociai la domenica successiva, all’uscita dalla messa, non mi parlò, ma mi guardò negli occhi e mi sembrò di scorgere in quello sguardo un non so che di ammiccante.
Era la strada giusta e il sorriso tornò a fare capolino sulle mie labbra.
Poi m’imbattei in te, da solo, e fui sconvolto dal cambiamento avvenuto in quel breve lasso di tempo.
“Ciao!” la tua voce mi fece sobbalzare, mentre fumavo seduto su un masso, aspettando la corriera.
Tu risalivi dal fosso, un cesto di funghi galletti tra le mani e il volto accaldato. Subito qualcosa nel tuo sguardo mi sbatté in faccia il cambiamento:
Lo sguardo non era perso nel vuoto, era vivace e deciso, non guizzava dai piedi ai capelli, ma puntava dritto nei miei occhi.
“C-ciao” risposi, intimidito da quel ragazzotto che eri diventato senza che me ne accorgessi.
“Visto quanti ne ho scovati?” dicesti allegro. “Perché non vieni più da me? Ho costruito una locomotiva, va a vapore”
Ti fissavo sbalordito: quante parole per essere te. Mi hai sorriso come leggendomi nel pensiero:
“Vado dal dottor Marconi, mi spiega come riuscire a… com’è che dice lui? Uscire dal guscio, visto come riesco a parlare meglio?”
“Oh, sì, infatti” sussurrai.
In quel momento arrivò la corriera, presi le carte affidatemi da mio zio e salii. Ti salutai un po’ stordito, combattuto tra la gioia per il tuo miglioramento e la paura di un avversario più temibile, e ancora qualcos’altro ribolliva nella mia mente tormentata: eri il mio amico, nonostante tutto, nessuno ti voleva oltre me e questo rendeva la nostra amicizia speciale, rendeva me in qualche modo speciale. Ora se le tue stranezze fossero scomparse avresti avuto tanti altri amici ed io sarei stato solo… io, normalissimo e noiosissimo io!
Tentai il tutto per tutto il giorno dopo: cioccolatini e una lettera d’amore che mi aveva tenuto impegnato nella stesura per giorni e lunghissime notti, la mia giacca nuova, capelli sistemati di lato, bussai alla vostra porta.
Emma aprì, vidi un sorrisetto comparire sulle sue labbra per svanire subito dopo, sostituito da un’espressione imperscrutabile.
“Ciao, sei bellissima”
Lei arrossì lievemente. “Ciao”, la sua voce era poco più di un sussurro.
“Per te” consegnai i regali, lei li accettò senza fiatare, ma non si scostò per farmi entrare.
Mi sedetti sui gradini sperando che mi seguisse, lo fece rimanendo due gradini sopra il mio, sospirai di sollievo.
“Voglio bene a Luca e… a te, sono stato stupido e irresponsabile”
“Lo sono stata anch’io” mi sorprese lei. “Luca è una persona speciale, sta superando i suoi problemi e ho imparato a conoscere la sua straordinaria creatività ed intelligenza, deve imparare ad interagire meglio con le persone, ma ce la farà”
“Già” risposi cercando di pensare a come allontanarti dai nostri discorsi. “Andiamo al picnic con don Paolo domenica?” dissi d’un fiato, col cuore in gola.
In quel momento hai fatto capolino: “Salvatore!” hai quasi gridato, facendomi sobbalzare.
Ti guardai imbronciato sederti così vicino a lei e nel farlo poggiavi la tua mano sulla sua spalla, con confidenza. Mi sentii avvampare invidiando quel contatto con la pelle liscia e candida che spuntava dal vestitino dalle spalline sottili. Ne ero certo, la amavi anche tu, ti conoscevo abbastanza da riconoscere quello sguardo di adorazione, quello sguardo che di solito era destinato a me.
Come un perfetto idiota mi alzai mugugnando un saluto, vidi i vostri sguardi allibiti, ero io lo strano ora, ero io quello che non sapeva sostenere le situazioni, il confronto con le persone.
“Cazzo!” sbottai scalciando un povero gatto che aveva sfortunatamente incrociato la mia strada, facendolo volare dall’altra parte del marciapiede con un sonoro miagolio.
Le mani ficcate nelle tasche, mi accesi l’ennesima sigaretta, con la voglia cocente di spaccarti quel bel viso sorridente.


Eroi e codardi

L’estate passò e così l’autunno, Emma ripartì per il collegio, ripresi a vedere Luca. Era così migliorato, aveva anche ripreso gli studi con un professore privato, pagato dai nuovi genitori. Qualcosa però tra noi era cambiato da tempo, forse eravamo cresciuti, forse la mia gelosia per Emma mi frenava. Quando ogni due settimane arrivava la sua lettera Luca se la leggeva e rileggeva con quel sorriso storto, senza farmi vedere il contenuto, avrei voluto prenderlo a calci. Ma rimanevo, perché dopotutto il nostro legame era indissolubile e perché quando lavoravamo insieme ai nostri modellini, quando guardavamo i film horror o vietati ai minori, di nascosto, al cinema Aquila, ridevamo ancora come a otto anni e non esistevano differenze o gelosie.
Ma il destino aveva sempre avuto altro in mente per noi, sempre più spesso penso che poteva andare in modo diverso, che forse un’altra vita avrebbe potuto attenderti, invece quella vita te l’ho rubata io e per ogni gioia ricevuta, un altrettanto forte dolore mi pungeva il cuore.
Arrivò il Natale e con esso tornò anche Emma e con lei batticuori e contrasti.
Ormai ne ero certo: la amavi, in silenzio, come tutte le cose che facevi. Ne avevo avuta la conferma quando con finta noncuranza ti chiesi: “sei felice di avere una sorella? Io con la mia non faccio che litigare, sono una vera scocciatura!”
“Emma non è mia sorella, non veramente…”
Hai risposto abbassando lo sguardo, poi hai iniziato a dondolare un po’, era tanto che non te lo vedevo fare, il tuo sguardo vagava e vi lessi imbarazzo. Sì, l’amavi, ma non avevi speranza. Lasciai cadere l’argomento tornando a dipingere il modellino dell’aereo appena terminato.
Emma arrivò con il collo di pelliccia sulla giacca elegante, sembrava una donna fatta, di quelle che si vedono nelle riviste. Lo sguardo sottolineato da una matita nera mi fece provare un brivido sopito da mesi.
“Ciao Salvo” disse stampandomi un veloce bacio sullo zigomo.
“Ciao!” ti saltò al collo, poi , come vento primaverile, volò in casa lasciandoci lì tra i fiocchi di neve che imbiancavano i nostri capelli.
Era la notte di Natale eravamo tutti in chiesa, era appena terminata la funzione, la gente del paese si affollava per gli auguri, prima di correre al caldo del focolare.
Mi ero preparato il regalo nella tasca del cappotto: un bracciale d’oro con un cuore, era sottile, ma potevo permettermi solo quello, anzi, per la verità dovevo a Silvano Parritti, il gioielliere, ancora un terzo del prezzo stabilito.
M’incamminai verso casa vostra, arrabbiato che non mi aveste aspettato per gli auguri.
Poi dietro l’angolo con via Marconi sentii delle grida, accelerai scivolando sulla neve ghiacciata, poi slittai frenando di botto e caddi prendendo un forte colpo all’osso sacro. Non riuscii a muovere un muscolo per qualche secondo:
Emma era distesa a terra, Carrisi le era sopra con i pantaloni calati, gli altri due ti tenevano fermo, mentre tu, gli occhi fuori dalle orbite, ringhiavi e sbavavi, tornando il Luca di un tempo.
Mi riscossi, presi il coltello a serramanico, inseparabile amico di milioni di zeppi incisi, e lo feci scattare. Un attimo dopo afferravo per i capelli Carrisi, mentre gli altri scappavano codardi alla vista dell’arma. Tu, libero, ti fiondasti in mio aiuto, colpendolo alla schiena come una furia.
“Posa il coltello” ti sentii dire mentre gli torcevi il braccio dietro la schiena, io vidi Emma lì distesa. No, non lo posai, nella mia stupida testa da ragazzino, io la dovevo vendicare, accecato di rabbia calai con forza il coltello.
“Noooo!” alla vista del sangue perdesti la testa, iniziasti a gridare forte, spingendomi via. Rotolai nella neve. Macchiandola di sangue.
Scivolai fino ad Emma, distesa con il volto nascosto tra le mani, abbracciandola, mentre tu cercavi di tappare il profondo foro sul collo di Carrisi, che zampillava in modo osceno.
“Che succede qui?”
Accorse gente, non capii più nulla, continuavo a domandarmi come un corpo umano potesse contenere una simile quantità di sangue.
Poi i carabinieri, le sirene dell’ambulanza, te inzaccherato da testa a piedi, che venivi trascinato via.
“Stai bene?” sussurrai ad Emma mentre la facevano alzare da terra.
“Sì” rispose, e sospirai di sollievo vedendo che aveva tutti i vestiti al loro posto. Ero un eroe, avevo impedito il peggio! Solo allora chiesi ad un tizio di te.
“Lo hanno arrestato, ha ammazzato il figlio di Carrisi l’arrotino, è matto, l’ho sempre detto io!”
Come un macigno piombò su di me la consapevolezza di quel che avevo fatto. Mi alzai come uno zombie, camminando automaticamente fino a casa, mi gettai sul letto respirando a stento. Ed ora?




Le conseguenze del non detto

I carabinieri arrivarono, quella stessa notte, ero terrorizzato e sconvolto, tu lì solo, con quelli che ti urlavano contro avevi sicuramente fatto il mio nome, ero fregato.
I miei genitori mi portarono in caserma, non vollero farmi salire sulla volante, come se volesse dire che ero un delinquente,’ infatti lo sono‘, continuavo a pensare.
Vidi Emma, seduta sulla panca, piangeva sommessamente, il braccio della madre attorno al collo. Di te nessuna traccia.
Ero pronto alla sua accusa, al suo disgusto, invece tra i singhiozzi disse solo: “grazie”
Il padre di Emma, e tuo, mi diede una pacca sulla spalla e disse guardandomi con occhi cerchiati di rosso:
“Emma mi ha raccontato che l’hai salvata, grazie, sei stato coraggioso”
“Io…io…” balbettai confuso.
“E Luca?” chiese mia madre finalmente.
“Luca ha sragionato, ha preso il coltello e… e…” cadde seduto singhiozzando tra le mani “L’ha ucciso!”
Mi sentii soffocare: era confermato, Carrisi era morto, ero stato io, allora perché Emma non mi accusava, perché lasciava che tu prendessi la colpa?”
“Lo scagioneranno, stava difendendo la sorella,avrà le… com’è che ha detto tuo zio al telefono? ATTENUATE” disse mia madre tirando fuori dalla borsetta un fazzoletto candido e porgendolo all’uomo distrutto dal dolore.
“Attenuanti mamma” corressi distrattamente.Fissavo intensamente Emma, cercando di capire, lei non alzava lo sguardo dalle mani, torcendole sulle ginocchia.
La madre si alzò per consolare il marito e io ne approfittai per sedermi accanto a lei.
“Grazie” disse ancora, prendendomi le mani, “Mio Dio, povero, povero Luca, non ho visto nulla per fortuna, ero terrorizzata, ho chiuso gli occhi per tutto il tempo, ma ho sentito come ringhiava e gridava, ha perso la testa perché… perché mi ama” sussurrò le parole tra un singhiozzo e l’altro. Volevo disperatamente dire qualcosa, ma in quell’attimo l’appuntato Demarchi entrò:
“Prima la ragazza” disse. Ed Emma entrò.
Ne uscì mezz’ora più tardi, i minuti erano passati lenti mentre la vergogna e il terrore cementavano il sangue nelle mie vene, impedendomi di pensare. Me ne stavo lì immobile, la testa svuotata, le orecchie ronzanti e lo stomaco stretto in una morsa dolorosa, le membra pesanti come piombo.
“Il ragazzo ora” vennero a chiamarmi, mentre Emma usciva seria, ma senza più piangere, tornando dai genitori.
Parlammo per un’altra mezzora, dissi esattamente com’era andata, tranne per l’ultimo pezzo, quello in cui avevo perso la testa e tu avevi tentato di fermarmi. Non ce la feci a mentire spudoratamente, mi limitai a dire che caddi e non vidi cosa successe poi. Col senno del poi accettarono fin troppo volentieri le versioni mie e di Emma, ma quella sera ne fui solo sollevato.
Aspettammo tutti nella sala d’aspetto, poi il maresciallo in persona venne fuori e chiamò tuo padre. Chiusero la porta.
“Non parla con nessuno, non confessa e non smentisce, urla come… come… lo internano” Uscì dopo poco esclamando l’uomo distrutto, le ultime parole furono storpiate dal pianto.
Era fatta, ero un delinquente, della peggior specie, mi alzai ed ebbi un capogiro, mi fecero bere e mi portarono a casa, mentre tu rimanevi lì intrappolato nell’infamia che io ti avevo gettato addosso. Internato, in manicomio, non ne saresti più uscito, forse era meglio la prigione.
Quella notte, come quasi tutte quelle a venire, non chiusi occhio, appena lo facevo vedevo te, sporco di sangue, il volto rigato di lacrime, che ti voltavi verso di me indicandomi e urlando il mio nome.
Tu, poco più che un ragazzino, il tuo bizzarro ingegno, la tua fanciullesca bontà, spazzate via da un gesto solo, il peggior gesto che esista, ed ero io l’artefice, ma non ero io che ne pagavo le conseguenze, pur portandone il macigno sulle spalle ancora troppo fragili per rendermi conto di come sarebbe stato indelebile quel peso.
Un vuoto rimane ora nella mia mente, un buco di interminabili giorni bui e cupi in cui non volevo alzarmi dal letto e mi trascinavo da un luogo all’altro senza più esistere.
Poi venne lei, ancora il destino giocava con le nostre vite, legate indissolubilmente.
La vidi sulla soglia di casa mia, pallida e dimagrita, ma sempre bellissima, si stringeva lo scialle sulle spalle.
“Devo parlarti” sussurrò, e lessi una tale disperazione nei suoi occhi, che non ebbi coraggio di chiedere nulla, mi feci da parte lasciandola entrare.

L'ultimo della classe capitolo 9


La confessione.

“Sono incinta”
Quelle parole riecheggiavano nella mia testa senza che riuscissi a dargli un significato.
Seduti sul mio letto, non trovando il coraggio di guardarci in faccia, lei le unghie, di solito curate e laccate di smalto, rosicchiate fino a sanguinare, io che torcevo la stoffa dei pantaloni del pigiama di flanella.
“Ma come…” iniziai finalmente a dire. Era un argomento ostico per me, all’epoca parlare di certe cose con una ragazza non era solo sconveniente, era un vero tabù, oltre al fatto che non ne sapevo quasi niente: vergine di fatti e pensieri ero ancora attratto dalla figura femminile per quel poco che intravvedevo durante le scampagnate al fiume, quando le ragazze si alzavano le gonne e indossavano abiti scollati. Sognavo baci romantici e passeggiate mano nella mano, questo era davvero fuori dalla mia portata.
Non rispondeva, lei ormai donna con in grembo un figlio, che parlava a me bimbetto senza cervello e senza speranze. Mi preparai a dirle la verità su di te, sul mio gesto, sull’omicidio, lei si era aperta a me ed io l’avrei protetta, ma dovevo prima liberarmi la coscienza, forse mi avrebbe capito e perdonato.
Poi si riscosse, sembrò farsi coraggio, forse intuendo che io non ne avrei mai avuto, forse già capendo che era lei che avrebbe dovuto prendere le redini e trascinarci verso la salvezza o la perdizione.
“è di Luca” disse crollando immediatamente, incurvò le spalle prendendosi la testa tra le mani.
“C-cosa?” sussurrai “Cosa?” urlai alzandomi di scatto dal letto disfatto. Mi sentivo tradito, annaspavo nel risentimento, proprio io, che ti avevo condannato per sempre, mi sentivo ferito da qualcosa di infinitamente inferiore a ciò che io ti avevo fatto. Eppure ti odiai, ti odiai ancora una volta. Tu strambo ragazzino al limite tra il genio e il ritardato, mi avevi fregato la ragazza e avevi fatto sesso prima che io fossi riuscito a dare un bacio vero, prima che avessi potuto affondare il naso tra i soffici capelli e sentirne il profumo inebriante. Ero rabbioso, fori di me. Presi i modellini che avevamo fatto insieme e li fracassai, ad uno ad uno piangendo.
“Puttana!” urlai ad Emma una, due, infinite volte, ma lei non si muoveva, non se ne andava, non mi urlava contro, lei aveva già trovato la soluzione e aspettava che sbollissi la rabbia per mostrarmela.
“Don Michele lo sai come la chiama questo? Incesto! Tuo fratello, cazzo, e non è neanche normale!”
Si alzò veloce come non ci si aspetta da chi è distrutto dal dolore, a un centimetro dal mio volto mi fissò, lo schiaffo partì, violento, potente, furioso.
“Non lo dire, non lo dire questo, non tu, che lo sai com’è speciale, io l’ho amato, lo amo ancora”
“Lo ami?” le parole mi morirono in gola. Come potevo dirle ora che avevo condannato il mio amico, il suo amore?
“Ma devo pensare al bambino” fece una pausa, improvvisamente calma, vidi un’unica lacrima scivolare sulla sua guancia pallida.
“Tu mi ami Salvo, non è così?”
Tacqui sbalordito dalla sua freddezza, dal suo andare al dunque, colpendo nel segno.
“Sì” mi arresi.
“Allora sposami, imparerò ad amarti ed insieme ci prenderemo cura del bambino che porto in grembo, ti chiedo molto, ti chiedo tutto, in cambio sarò la moglie perfetta, farò qualunque cosa per te, vivrò solo per renderti felice”
Mi mancava l’aria, era troppo da sopportare ed io ero troppo giovane e immaturo. Ma d’un tratto mi bloccai tra i rottami dei nostri giochi di una gioventù di colpo lasciata alle spalle. Intravidi una via d’uscita, la strada per la redenzione: Avrei cresciuto tuo figlio, dandogli un futuro grandioso, quello che tu comunque non avresti mai potuto dargli, troppo lontano dagli schemi, dai canoni di quel che ci si aspetta da un capofamiglia. Io invece ce l’avrei fatta, per te, per me e per Pietro. Non so come mi uscì subito questo nome: forte e deciso sarebbe stato, non come me o come te. Pietro sarebbe stato quello che noi insieme non eravamo potuti essere.

L'ultimo della classe. finale




Il ragazzo strinse la lettera, una lacrima rabbiosa scivolava tra le guance, appena scurite dalla prima barba. L’accartocciò reprimendo i singhiozzi. Era forte lui, non aveva mai pianto, “era da deboli”, gli ripeteva colui che in realtà non era affatto suo padre. Un uomo tutto di un pezzo, che aveva rinunciato al suo sogno di diventare avvocato per crescere lui, incidente di giovinezza, che aveva sempre amato sua madre con devozione quasi maniacale, e non era mai stato ricambiato con lo stesso ardore.
Ora sapeva, capiva tutto, proprio quando era troppo tardi per prendere a calci quel burattino senza cuore, quell’impostore e traditore che aveva vissuto d’inganni. Se ne era andato alla fine, quando lui, Pietro, era abbastanza adulto da capire aveva scritto. Invece no, non capiva, non capiva il perché di tutto quel dolore, di tutti quegli inganni.
Suo padre, quello vero… vecchie immagini di foto e racconti si accavallarono nella sua mente confusa. Si ritrovò a pensare all’amore per l’arte, alla creatività che l’aveva sempre contraddistinto, era la sua quella creatività, non del prozio Vincenzo, come gli dicevano tutti. Era di quel ragazzo pallido e misterioso di cui sempre più spesso il padre malinconico si ritrovava a raccontare. Era stato incastrato, gli aveva detto Salvatore, per proteggere sua madre, e una società ottusa non aveva saputo guardare al di là della sua diversità, condannandolo senza equo processo, mettendolo in manicomio, senza che realmente fosse fatta nessuna indagine. ‘Ai tempi d’ oggi non sarebbe successo’, farfugliava Salvatore ubriaco, proprio poche sere addietro, ‘ai tempi moderni ci sono psicologi, psichiatri, diritti e leggi, ma prima un matto era un matto, non c’erano disagi, disturbi, cause più o meno superabili’.
“Ahhhhhhhhhhh!” gridò improvvisamente, volendo esser pazzo, volendo vendicare suo padre, sfogandosi come non aveva mai fatto “Mio padre è un pazzo! Vigliacchi mentitori” pigliava a calci tutto, buttava all’aria coppe e medaglie del nuoto, della box, di tutti gli sport in cui aveva voluto eccellere per compiacere il suo falso padre.
“Ahhhhhhhhhhhhhh” gridava Pietro, lo voleva ammazzare, strangolare, ferire nell’anima e nel corpo, ma lui ormai era lontano, partito, sparito, fregandolo ancora una volta.
“La cassettina di latta sopra il mio armadio” gli aveva detto la sera prima, “Prendila domani c’è una cosa per te” Aveva pensato ad un regalo per gli studi appena terminati, per il suo massimo dei voti, oppure un anticipo del compleanno quasi alle porte. Sarebbero stati diciotto, era un uomo ormai. Ma la mattina dopo il padre era sparito frantumando ogni sua aspettativa, ogni suo sogno, ogni sua certezza. Nella cassetta una maledetta lettera e qualche foto stropicciata e usurata, dopo che aveva avuto una vita per confidargli tutto, non l’aveva fatto.
“fanculo!” gridò lanciando quella scatola. Sarebbe corso da sua madre, a dire tutto, a dirle che razza di uomo aveva sposato.
Una foto sbiadita volò via e chissà come quel casuale svolazzare lo calmò. Cadde in ginocchio afferrandola, accarezzò il volto imberbe di un ragazzetto, che sembrava proprio lui.
“Papà” sussurrò, ora veramente consapevole.
“Pietro?”
Sentì la voce di sua madre al piano di sotto.
Non aveva mai amato Salvatore, aveva stirato, lavato, cucinato e sorriso, aveva fatto anche sesso di sicuro, ma di altri figli non ne arano mai arrivati. Pietro pensò a Salvatore, un uomo che beveva troppo e parlava poco, con una moglie che non lo ricambiava, partito con il rimorso nel cuore. Dopo tutto alla fine aveva pagato, non nel modo giusto, ma lo aveva fatto per diciotto anni ed ora forse scappava per concedersi una possibilità, quello che lo feriva era che non voleva includerlo in questa sua nuova vita, capiva la madre, ma lui...
Suo padre, quello vero, era morto pochi anni dopo il fattaccio, di polmonite. Salvatore avrebbe anche potuto tirarsi indietro e rifarsi una vita, ma non lo aveva fatto, aveva portato la sua croce, portando il ricordo di Luca con sé e lo avrebbe fatto fino alla tomba.
“Pietro?” chiamò ancora la madre.
No, non avrebbe detto niente, ora sapeva chi era, il passato non poteva essere cambiato, poteva essere solo accettato.
Afferrò la scatola dei colori ed una tela e iniziò a dipingere con foga, azzerando i pensieri e calmandosi pian piano.
“Arrivo” disse infine alla madre che lo chiamava per l’ennesima volta.
Aveva pianto a lungo in quella stanza, senza vergognarsene, aveva pianto per Luca e per sua madre, ora avrebbe voltato pagina, sperando che suo padre avesse ricominciato a vivere anche se lontano da lui. Sarebbe stato forte sì, avrebbe lottato per cambiare le cose, per cancellare le ingiustizie, sarebbe stato un uomo Grande, ma avrebbe accarezzato la parte di anima che apparteneva a Luca, avrebbe creato con le mani, amato incondizionatamente e vissuto come era giusto, onorandolo.
Corse verso la primavera che esplodeva fuori, si arrampicò su un albero, un ragazzotto di diciassette anni troppo cresciuto per quei giochi di bimbetto, guardava l’orizzonte con gli occhi indaco di Luca.

32 anni dopo
Pietro teneva per mano la figlia, emozionato come non era stato dal giorno in cui l’aveva tenuta per la prima volta tra le braccia ventisei anni prima.

Chissà come, gli venne in mente suo padre, i suoi padri, sarebbero stati orgogliosi di lui, di come aveva saputo prendere dalle esperienze e dai modi di vita di tutti e due. Aveva cercato di essere un uomo sincero prima di tutto, perché le menzogne, lo sapeva bene, non portavano la felicità. Lavoratore, ma anche sognatore, aveva dato spazio alla creatività, al fanciullo che era in lui. Dipingeva, suonava e scriveva, assaporando la vita nel miglior modo possibile. Come in questo momento, mentre saliva piano i gradini dell’altare con il cuore palpitante. Gettò lo sguardo di lato verso sua moglie Monica. Sì, aveva fatto del suo meglio e la vita era stata gentile con lui, era felice e sperò che Salvatore lo fosse almeno la metà di lui. Aveva ricevuto sporadiche lettere, soprattutto dopo la morte di sua madre. Era in giro per il mondo con una onlus chiamata l’Abbraccio, che aiutava bambini disabili e le loro famiglie, aveva finalmente trovato il suo scopo nella vita. Tornò verso il suo posto e lo vide: un vecchio canuto, ma non poteva dimenticare i suoi occhi, era Salvatore, che gli sorrideva commosso, il tempo delle sofferenze era forse finito, la vita aveva rimarginato le cicatrici ed ora forse anche Salvatore si era concesso un po’ di pace.

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