Occhi indiscreti
1
Il mare
ruggisce, tra scoppi improvvisi sugli scogli e schizzi di spumeggiante rabbia,
mentre cammini curva con le mani sepolte nel cappotto troppo grande.
Ti fermi di
scatto ed alzi il mento. Chiudi gli occhi, prendendoti gli spruzzi gelati in
viso. Te ne stai lì a fissare il mare a lungo, troppo per le mie ossa
infreddolite. Mi passo più volte le mani sulle braccia, cercando di scaldarmi,
soffio sui palmi osservando la nuvola di vapore volare davanti al mio naso
ghiacciato. Tu invece stai lì immobile, senza un tremito, senza cambiar
posizione, naso all’aria e capelli al vento.
La lunga chioma,
ormai scurita dall’umidità, non svolazza più, ondeggia piano sulle tue spalle
gocciolando chiazze scure sul vecchio paltò.
Ti volti. Abbasso
il viso e accendo una sigaretta, con noncuranza, mentre aspetto che mi passi
accanto sorpassandomi.
T’incammini
verso casa, come da copione: lavoro notturno alla caffetteria, poi stacchi e
vieni qui aspettando che il giorno nasca. Che arrossi o meno il cielo, che il
mare rifletta o no i suoi colori, tu sei sempre qui, con la stessa espressione
dolente sul volto.
Ti seguo a
debita distanza. La sigaretta si spegne alla pioggia che inizia a cadere
copiosa, la getto via ed apro l’ombrello, ringraziando la mia previdenza: sono
solo un passante anonimo, con il bavero alzato e l’ombrello calato sul volto.
Aspetto che
la luce si accenda nel tuo appartamento al sesto piano.
Sospiro e
apro il portone della palazzina di fronte, salgo al sottotetto e infilo la chiave
nel 10b, il mio monolocale.
Apprezzo il
tepore della casa, seppur vuota e silenziosa è pur sempre un gradito riparo
dalle intemperie. Mi apposto alla finestra, metto l’occhio sul binocolo e la
tua esile figura appare nel mio campo visivo.
Le finestre
senza tende mostrano il tuo appartamento scarno, ma lindo. Il cappotto ben
appeso sull’attaccapanni da muro. Le scarpe le hai lasciate fuori, sul
pianerottolo.
Torni dal
bagno con un asciugamano per tamponare i capelli fradici, poi entri piano nella
stanza buia. Lui dorme, come ogni mattina, e come ogni mattina piangi uscendo
dalla sua stanza, poche lacrime veloci, subito scacciate da una mano rabbiosa.
Poggi la schiena sulla porta appena chiusa, espiri e drizzi le spalle.
Cinque
minuti dopo il vapore appanna i vetri e intravedo due sagome che fanno
colazione, due ombre scure, con i capi che si sfiorano.
2
La pioggia
ha lavato la città, tutto riluce. Cammino a passo spedito, fischiettando. Oggi
è un giorno speciale, l’unico giorno in cui ti vedo spensierata. Non so come né
quando, ma mi sono affezionato al tuo sorriso, dolce, pieno di vita.
Oggi è il giorno del ‘Niña loca’.
Immerso nei
miei pensieri commetto un errore imperdonabile: Apro la porta, facendo
tintinnare il campanello. Cosa mi è preso dannazione? Mi sono distratto, come
un novellino. I miei occhi incontrano i tuoi, gelo e calore insieme.
“Buongiorno!”
la tua voce non è distorta da interferenze o disturbata dai fruscii delle
apparecchiature, ma limpida e dannatamente reale.
“Buongiorno”
Sostengo lo sguardo, ma dentro tremo. Potresti riconoscermi ora, potresti
ricordati di me, rovinando tutto.
“Deve
ritirare?” Chiedi fissando le mie mani vuote. Di colpo ricordo dove sono:
“No, vorrei
che desse una rinfrescata al mio paltò” mento sfilandolo.
“Ah, e
uscirà senza, con questo freddo?” chiedi visibilmente sorpresa. Devi pensare
che io sia davvero strano, ora le possibilità che ti ricordi di me aumentano,
devo uscire subito di qui.
Qualcosa
però mi trattiene, un’assurda curiosità che incolla le mie suole al pavimento
della lavanderia.
“No, aspetterò
qui se non le dispiace” subito lo stomaco si contrae per quest’idiozia
farneticante, ma comunque mi siedo.
“Oh, non c’è
problema, ci vorrà un po’” dici, ora sei imbarazzata e forse impaurita. Vedo lo
sguardo volare da me al telefono, come a misurare lo spazio per fiondarti a
chiamare soccorsi.
Me ne sto in
silenzio, un sorriso docile stampato sul volto, sperando di metterti a tuo
agio.
Il ragazzino
disegna.
“Non sei
andato a scuola?” chiedo distrattamente, ma una parte di me sa che è anche per
sfidarti, per mandarti un segnale. Infatti reagisci all’istante: gli occhi
scuri divengono pozzi profondi, le sopracciglia corrugate e i pugni stretti.
Solo per un istante, poi sorridi, un sorriso costruito, duro come cemento:
“Non stava
bene oggi” rispondi, mentre lui mi guarda con aria ottusa. Non capisce nulla
della mia lingua, lo tieni segregato in una cupola di cristallo destinata ad
infrangersi in mille pezzi. Presto, molto presto.
Ora sembri
nervosa, e anch’io lo sono, entrambi non vediamo l’ora che io esca da quella
porta. Mi alzo dalla sedia, gettandoti un’ultima fugace occhiata.
“Ci ho
ripensato, passerò più tardi, arrivederci”
Esco
rabbrividendo, ma il mio petto ribolle di rabbia: ore ed ore di appostamenti,
che rischiano di andare in frantumi. Ed ora mi beccherò anche un raffreddore.
3
Torno a casa
reprimendo pensieri dementi sul fatto che tu possa essere arrabbiata. Eppure
ero preparato: freddezza, distacco, niente empatia. Ma nonostante tutte le mie
precauzioni è successo lo stesso.
Eccoci al
ristorante. La tua amica, abito succinto, ricoperta di bigiotteria, ha già le
guance rosse per la troppa sangria. Il tuo moccioso ruba i polpi dalla paella
sogghignando e tu parli e parli nella tua lingua, sfogandoti del silenzio lungo
un mese.
La donna
t’interrompe spesso, parla con la bocca piena e rutta. Nonostante l’abito, non
ha l’eleganza di una signora, ma la rudezza della gente di strada. Tu invece,
con la semplice camicia bianca, i capelli raccolti sulla nuca e nessun gioiello,
hai un’eleganza naturale, che mi ha attratto fin dal primo attimo in cui ho
visto il tuo volto in quella foto.
Non ho osato
prendere un tavolo, ho già rischiato troppo alla lavanderia. Per questo mi devo
accontentare di vederti da lontano, senza poter udire il suono delle tue risa.
Fumo due,
tre, sigarette, le spengo e le intasco.
Finalmente uscite, ridi ancora, un po’ troppo
forte, sarà colpa della sangria. Il bambino è assonnato e ciondola la testa
poggiandosi a te.
“Notizie di Jacob?”
Scuoti la
testa mestamente.
“Non so
nemmeno più se desidero che torni o che sparisca, non ne posso più di questo
limbo, vorrei iniziare a vivere” Poi guardi il bambino, improvvisamente attento,
col naso alzato su di te. Sorridi:
“Saluta la
zia Randy, Radu”
“Ciao”
sussurra con la falsa timidezza dei bambini.
“Sta’ attenta”
Annuisci
incamminandoti verso casa.
Vi seguo piano
perché i miei passi non risuonino sull’asfalto.
4
Ti stendi sul divano, ancora sorridendo. Io ti
contemplo sorseggiando caffè. Tu, il mio spettacolo del sabato sera, tu, unica
mia compagnia, divenuta ossessione della mia vita solitaria.
D’improvviso
il suono del cellulare ci fa sobbalzare. Da quando vivo la tua vita, l’ho
sentito suonare un paio di volte, mai di notte. Sono eccitato e deluso al
contempo: forse il giorno che ho atteso così tanto a lungo da perdere di vista
la meta, è finalmente arrivato e sento amara la perdita che inevitabilmente ne consegue.
Inciampi
sbattendo un piede, saltelli imprecando e raggiungi l’apparecchio.
“Randy?”
‘Come Randy’
penso disorientato.
Sbarri gli
occhi. Parli troppo veloce, riesco a decifrare poco, ma sento la tua angoscia. Afferro
la pistola. Tutto succede di colpo. La tua porta si spalanca con uno schianto,
entra un uomo corpulento, calvo, dal ghigno animalesco, non è lui.
“Tu,
puttana!” urla spaccando il tavolino all’ingresso con una grossa mazza. Ti
butta in terra, mentre gridi alla voce che ti chiama singhiozzando dalla camera
accanto:
“Resta lì
Radu, non uscire per nessun motivo!”.
“Credevi che
non ti avrei riacciuffata?” È sopra di te e dalla tua faccia disgustata riesco
quasi a percepire il suo fetido alito. “Voglio i miei cazzo di soldi!” Ti
colpisce al ventre e il tuo gemito strozzato rompe le mie indecisioni. Dovrei
rimanere lì a guardare, impassibile, ma corro da te giustificandomi che se
muori tutto va a puttane.
Salgo le
scale a due a due, mentre i colpi sordi dal tuo salotto hanno svegliato i vicini.
Si affacciano insaziabili di tragedie da raccontare, ma rimanendo al sicuro
delle quattro mura.
Arrivo
all’ingresso, tu sei distesa, sangue sulla mazza e sul pavimento, ma non urli,
mentre l’energumeno ti ha bloccato le mani sul freddo pavimento.
Metto mano
alla pistola, poi cambio idea e prendo la mazza e colpisco con tutta la rabbia
che non riesco a reprimere. Mi fermo solo quando tu mi implori di farla finita,
che è morto.
Mi blocco,
ti guardo, capisco che mi hai riconosciuto. È andato tutto in malora, pazienza.
“Chi cazzo
sei tu!” gridi e vedo più terrore per me che per l’uomo che stava per
violentarti e che ha reso il tuo volto una maschera sanguinolenta.
“Io…” inizio
a dire cercando le parole giuste. Mi interrompi spingendomi via con entrambe le
mani:
“Vattene!”
Indietreggio
fissandoti, inebetito.
Poi ci
ripensi: “Portati via questo escremento!” Alzi le mani alla bocca, disgustata.
“Mio dio lo hai ucciso, cazzo sei matto?”
“Io…” Le
parole non vogliono uscire, le reazioni non sono immediate, la mia faccia di
bronzo non viene a salvarmi, tentenno impacciato, quasi impaurito.
“Cosa sei un
maniaco? Vattene subito e lasciami stare, capito? Non mi fai paura!”
Sembri
isterica, afferri la mazza. Hai paura, sì, ne hai davvero molta, ma sei una
leonessa che difende se stessa e il suo cucciolo, non esiterai ad avventarti
contro di me, pur sapendo di non avere scampo.
Afferro
l’uomo dal cranio fracassato, lunghe scie di sangue si formano sul pavimento
prima che riesca a issarmelo in spalla.
Salgo le
scale e arrivo sul tetto, entro nello sgabuzzino condominiale e lo ficco lì.
Domani sistemerò la faccenda. Per oggi mi limito a scendere le scale con
noncuranza, tornando nel mio appartamento, per un’ultima notte. Domani dovrò
sparire.
5
Il bilocale
è migliore del primo, ma mi è estraneo. Mi affaccio alla finestra, la visuale
sul tuo appartamento è obliqua, poco soddisfacente. Sbuffo, seccato e nervoso. Vado
in bagno e apro il sacchetto, mi accingo a usare la tintura scura, come le
lenti, e tagliar corti i capelli mossi.
Ti vedo
uscire zoppicando un po’.
Esco
calcando il berretto in testa, giacca sportiva e jeans attillati.
Ti fermi
davanti ad una villetta, nel quartiere bene. Ne esci, come previsto, con un
paio di dalmata e un cocker al guinzaglio, per il tuo strampalato lavoro
domenicale. Un sorriso di plastica costruito per l’occorrenza, che muore appena
ti volti.
Anche tuo
figlio sorride, accarezzando i cani latranti che gli zampettano addosso.
Destinazione
parco. Mi avvio prima di voi, posizionandomi dove so che andrete. Voglio rischiare
il tutto e per tutto mettendomi dove mi vedrai, provando la solidità del mio
camuffamento.
Mi raggiungi,
getti un’occhiata distratta verso di me e passi oltre. Istintivamente copri con
la mano l’occhio pesto, pudore e timore di poter attirare l’attenzione. Ti
siedi di fronte a me, lo sguardo perso nel vuoto, cupo e impenetrabile.
Tiro fuori
un blocco da disegno e mi metto a scarabocchiare, prima che possa rendermene
conto i tuoi tratti compaiono sul volto della donna che prende vita sul mio
foglio.
La palla
finisce sotto la mia panchina, tuo figlio si fionda a prenderla, si accuccia e
allunga la mano, non ce la fa, mi inginocchio e afferro la sfera appiccicosa,
reprimendo il disgusto.
Sento la tua
voce alle mie spalle, devo rimanere calmo.
“Radu vieni
via, disturbi il signore”
Mi alzo,
sorridi, poi il sorriso si blocca. ‘cazzo mi ha riconosciuto’ penso. Istintivamente
la mano va alla pistola, poi seguo il tuo sguardo, non guardi me, ma il foglio.
“Non volevo
invadere la sua privacy, vuole che lo strappi?” chiedo con voce cantilenante
dall’ accento ispanico.
Vedo il tuo
volto combattere ed infine rilassarsi:
“È
bellissimo” dici, e vedo un sorriso vero spuntare sulle labbra spaccate.
Rimango
spiazzato quando ti siedi sulla panchina:
“Posso?” chiedi
sfogliando il blocco.
“È bravo,
davvero bravo” Il tuo sorriso mi paralizza. Mi siedo, il mio corpo, abituato a
fingere, recita la sua parte: la gamba piegata con noncuranza sulla panchina,
le mani, con i guanti dalle dita mozze, indicano un’immagine, senza alcun
tremore:
“Questo
passero stava lì fermo, voleva un ritratto” scherzo, mentre sento rombare il
cuore nelle orecchie.
“A me piace
questo” indichi il mare tempestoso.
“È suo”
stacco il foglio dal blocco e te lo porgo.
“Mio? No,
no, io non posso…”
“Lo prenda” insisto.
Sorridi
ancora, scosti una ciocca di capelli dal volto, sistemandola dietro l’orecchio.
Dio come sei
bella da vicino, mi sale un moto di rabbia per quel maiale che ti ha ridotto in
questo stato. M’irrigidisco pensando che devo ancora sistemare quella
questione. Ricordando d’un tratto chi sono e chi sei tu.
Devi
percepire qualcosa perché non sorridi più:
“Mi scusi,
l’ho importunata” ti alzi. “Ora devo andare” allunghi una mano verso di me. “Mi
chiamo Sonia”
“Francisco”
rispondo accarezzandoti la mano. Sento la mia voce dire:
“Resta ancora
un po’ ti prego” mentre l’altra voce nella mia mente impreca: ‘imbecille’
Abbassi lo
sguardo arrossendo, torni a sederti e sono sicuro che stai pensando anche tu di
esser diventata matta.
“Da dove
vieni?” chiedi.
“Toledo, son
qui per disegnare un po’ di bellezze locali e cercare fortuna”
Ammicco. Tu
rispondi a tono, civettando un po’:
“Non sono
del luogo e di certo non sono una bellezza, non ora”
La butto
sullo scherzo:
“Dovresti
far attenzione per le strade ghiacciate con quella muta di cani che ti tira il
guinzaglio, oltre a ridurti così potresti travolgere qualcuno”
Ridi, una
risata cristallina, poggi con noncuranza una mano sul mio ginocchio e devo
trattenermi da non coprirla con la mia.
Rimaniamo lì
a lungo, il mio cervello sembra in panne, non memorizza ogni cosa succeda
intorno, non registra i secondi passati né chi transita intorno a noi.
Non mi rendo
conto che il tempo è volato finché tu non ti alzi di scatto:
“Oh mio Dio
è tardissimo, è stato un piacere Francisco” ti chini sul blocco afferrando la
matita a carboncino, scrivi dei numeri, poi alzi il capo sorridendo un po’
timida:
“Mi piacerebbe
rivederti” ti giustifichi e scappi via lasciandomi lì con le narici ancora
piene del tuo odore.
6
Me ne sto al
freddo sull’uscio, indeciso se entrare o scappare, pochi clienti nottambuli si
contano sulle dita nel locale. Sbircio dentro ancora una volta e vedo il tuo
volto tirato dalla stanchezza sorridere gentile ad un acquirente. Ancora una
decisione impulsiva, entro imprecando contro la mia stupidità, mentre la parte
idiota che è spuntata in me mi zittisce:
“Ciao”
esordisco. Spalanchi gli occhi, vi leggo un guizzo di gioia.
“Ehi, che ci
fai qui?”
“Soffro
d’insonnia”
“Allora
decaffeinato”
…
“Si chiude,
non avete sonno?”
La voce ci
fa sobbalzare. La notte è trascorsa parlando, sei divertente ed intelligente, oltre
che bellissima. La voce che gridava ‘non puoi! ’ è ormai messa a tacere.
“Posso
accompagnarti a casa?” ti chiedo preparandomi al no: so dove vai ogni mattina.
“Sì, certo”
mi sorprendi e a stento trattengo un sorriso.
“Allora…chiamami”
sussurri sul portone. Rimango lì imbambolato mentre mi stampi un leggero bacio
sulle labbra. Sto lì fino a che il sole salendo non riscalda la mia nuca,
riscuotendomi.
7
Giro e
rigiro il pezzo di carta strappato dal blocco nelle mani sudate. Non posso
chiamare, non posso gettare tutto alle ortiche per un capriccio senza senso.
Vado alla
finestra e ti vedo rilassata sul divano, una settimana è passata e domani è di nuovo
riposo, andrai al parco ed io potrei incontrarti lì ‘per caso’, ma ho voglia di
sentire la tua voce ora, un impulso che attanaglia le mie viscere e caccia via
la consapevolezza che non devo farlo. Le mie dita digitano quei numeri e sento
squillare libera la linea, mentre ti alzi sorpresa e timorosa allo squillo
inatteso.
“Pronto”
sussurri.
Devo
riagganciare.
“Ciao, sono
Francisco”
Il sorriso
che compare sulle tue labbra mi rende completamente ebbro, dimentico il
discorso che mi ero preparato.
“Vuoi
uscire?” chiedo in modo infantile.
“Si”
rispondi tu, in un soffio.
Sono al
settimo cielo, me ne frego delle innumerevoli conseguenze, mentre mi preparo a
portarti fuori, pregustando il fatto che ti starò vicino.
Un telefono
suona, il tuo, lo sento gracchiare dal microfono e prima ancora di sentire chi
è, il mio istinto mi dice che tutto è finito, senza che sia iniziato.
“Jacob” dice
la tua voce strozzata.
8
La testa mi
esplode, il cuore martella, devo essere cauto. La tua figura immobile sul molo
scruta l’orizzonte, le mani artigliano la stoffa del vestito.
Alzo lo
sguardo alla ricerca degli altri, non posso rischiare di fallire, non stanotte,
ma non ho la calma necessaria, il mio piano ha una falla, insignificante quando
è stato pianificato, ma da cui ora sta defluendo tutta l’acqua in cui annegherà
la mia coscienza.
Senza
controllo cerco un’alternativa. Ancora una volta metto a rischio tutto per te,
una sconosciuta. Eppure tengo a te, in un modo strano e malato, che mi
costringe a riflettere su cosa sarà dopo stanotte.
La luce di
un’imbarcazione mi riporta alla realtà. L’addestramento ricevuto prende il
sopravvento. Lo sguardo scandaglia ogni angolo del porticciolo, valutando ogni
pericolo, la mano all’arma, le gambe pronte a scattare.
Interminabili
momenti in cui tu ti torci le mani. Forse pensi a me? Inizi a camminare avanti
e indietro, il volto corrucciato. Ti mordi il labbro inferiore. D’un tratto ti
allontani tirando per un braccio il bambino. Il cuore si ferma un istante nel
mio petto e freno un sorriso neonato. Ma muore all’istante, perché tu torni
indietro, ti siedi su una panchina, prendi il volto tra le mani e vedo le
spalle alzarsi ed abbassarsi ritmicamente. Radu si avvicina abbracciandoti alle
spalle:
“Mammina,
non piangere” ti sussurra piangendo lui stesso, scostandoti i capelli dal viso,
cercando di aprire uno spiraglio per vedere i tuoi occhi e cancellare la
sofferenza dal volto che ama.
Vorrei
venire io lì, poggiare le mie mani su quelle spallucce fragili, consolarti. Ma
serro la pistola con ambedue le mani, le nocche bianche, i denti che
scricchiolano per la tensione.
“Tenetevi
pronti” Parlo alla trasmittente. Un attimo ancora ed esplode il caos. Dovevo
prendere solo lui, bloccarlo, lasciando te al tuo destino. Invece corro, ti
sollevo alla vita con un braccio, nell’altro prendo Radu e corro lontano dal
fuoco incrociato.
Urli,
scalci, poi mi riconosci e ti blocchi spaventata e delusa.
Nell’auto
schiaccio l’acceleratore, tu taci sbirciando dal finestrino la squadra che
cattura il tuo uomo.
“Chi diavolo
sei?” mi dici fissando il mio profilo. “Mi hai sentito? Chi sei!” urli furiosa.
Appena sono certo che sei al sicuro inchiodo e mi volto. Mi fissi e vedi i miei
occhi chiari, non quelli scuri che hai visto al parco.
“Francisco…
sei l’uomo che mi seguiva!” provi ad aprire la portiera bloccata.
“Aspetta” ti
supplico. T’abbraccio da dietro bloccandoti, stranamente non fai resistenza.
Ti poso un
bacio sulla tempia, ma ti sento rigida:
“Sono un
agente” ammetto.
“Mi hai
seguito per arrivare a lui” comprendi. La tua voce taglia come lama e so che
non c’è nulla che posso dire per farti capire come mi sento.
“Sì” dico,
senza tentare di spiegare nulla.
Prendo la
radio: “Ho inseguito il soggetto alfa, mi è sfuggita, la cercherò nei luoghi a
lei familiari, gli altri sono al sicuro?”
“Eccoti! Ti
sei perso il più bello amico: arrestati con un carico enorme di coca e dieci
prostitute a bordo, non avrai tutto il merito caro mio, mi spiace, il lupo
solitario dividerà gli onori!”
Scuoto la
testa, quell’imbecille di Calton avrà una grossa gratifica senza aver fatto un
cazzo.
Siamo sotto
casa tua. “Prendi un po’ di roba al volo, starai nascosta per un po’, fintanto
che non troverò documenti per voi. È tutto finito Sonia” ti dico.
Mi fissi
senza accennare a muoverti, poi i tuoi occhi brillano, di slancio mi baci
lasciandomi senza fiato.
Sorrido
guardandoti allontanare.
“Io va a szkoła?” chiede Radu rompendo il
silenzio.
Il mio
sorriso si allarga, tiro fuori una sigaretta per frenare le emozioni.
“Si, ragazzo,
ci andrai di sicuro”.
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