Accettando la sfida di un mio amico mi cimento nel mio stesso esercizio assegnato nella rubrica ESERCITANDO. ed ora chi vuole provare? queste le linee guida:
Scrivete un brano, massimo 8000 battute, in prima persona singolare, tempopassato ( sono ammessi tratti al presente, ma la predominanza deve essere al passato remoto) genere a scelta tra: Rosa, Horror e Thriller.
Le parole da inserire e scrivere interamente in maiuscolo sono: MANICOMIO, CICATRICE, EREDITÀ, IMBELLETTATO, BORIOSO, CONTINUAMENTE, VICENDEVOLMENTE
Reclusa
horror
La persiana aveva battuto continuamente
in quella notte ventosa, ma non potevo fissarla al gancio. La cicatrice
bruciava, la vescica gonfia, minacciava di esplodere. Decisi che era giunto il momento
di alzarmi.
Arrancai alla ricerca di un appiglio, cercando mille
posizioni per non sentire il dolore che mi procurava ogni singolo movimento.
Poggiai entrambe le mani al letto, cercando di riprendere
fiato, mentre odiose lacrime scivolavano sul volto, accartocciato in una
smorfia di dolore.
Passarono almeno cinque minuti, cinque minuti lunghissimi in
cui maledicevo il fatto di essere viva e in cui il mio cervello si ostinava a
trovare una via d’uscita alla sofferenza.
Cinque minuti in cui i miei gemiti si fondevano col
gocciolio insistente del lavandino rotto. Mi tenni stretta la fasciatura all’addome,
di solito premere forte attutiva il dolore durante i momenti. Mi drizzai
guardandomi intorno alla ricerca di appigli per arrivare alla meta. Una
seggiola ai piedi del letto era l’unico strumento che potevo usare, mi spostai
di lato trascinando piano i piedi, lo sguardo puntato verso l’oggetto del mio
desiderio: il water.
Il gocciolio! Sembrava
mi dovessero esplodere i timpani ad ogni cadenzata caduta del liquido.
Iniziai a contare mentalmente, illudendomi che il tempo
scorresse più veloce. Dopo un’eternità arrivai alla seggiola. L’avrei usata per
trascinarmi alla meta. Un sorriso amaro spuntò sulle mie labbra spaccate. Ma il
mio peso era troppo e il mio passo instabile, la gamba della seggiola s’inceppò
sul bordo di una mattonella, nel pavimento sconnesso e precipitai a terra.
Non so quanto tempo passò, credo di essere svenuta. Mi svegliai
in una pozza di sangue e urina. La ferita riaperta per i miei inutili sforzi di
andare a fare ciò che ora giaceva sul pavimento mischiato al mio sangue.
Imprecai e piansi, la stanza girava in una giostra che cambiava verso in
continuazione, disorientandomi.
Passi per il corridoio. D’un tratto lucida cercai con le
forze rimaste di trascinarmi sotto al letto, come se servisse a qualcosa, come
se potesse salvarmi dall’arrivo di LUI.
La serratura scattò, mentre i miei denti calavano in uno
spasmo sulle labbra, lacerandole in profondità. Ferite sopra le ferite.
Non disse nulla, non lo faceva mai. Mi acchiappò per le
braccia, poi cambiò presa sotto le ascelle, per tenermi più saldamente, mi
gettò sulla branda, mentre un grido straziante usciva dalla mia bocca, talmente
forte da sembrare disumano, stupendo persino me che fosse uscito dalla mia
gola.
Giacevo supina aspettando l’inevitabile trattamento. Mi
controllò frettolosamente la ferita, poi strinse forte le cinghie alle braccia
e alle gambe.
“Ti prego, ti prego, farò tutto quello che vuoi, lasciami
libera, lasciami andare, farò tutto quello che vuoi” sentii la mia voce dimessa e supplicante,
patetica! Faceva ribrezzo alle mie stesse orecchie.
I nostri sguardi si scrutarono in un brevissimo attimo, vicendevolmente impegnati a mandare il proprio
messaggio. Di supplica il mio, di desiderio misto a disgusto il suo, che avevo
imparato a conoscere, dopo lunghe giornate impegnate a cercare una spiegazione
a tutto quel che stava accadendo.
Poi gli occhi si strinsero in due fessure, mentre mi si
scioglievano le budella dalla paura per ciò che sapevo sarebbe successo.
Il volto appena coperto da un’ispida peluria si trasformò sotto
i miei occhi, a nulla valsero le mie grida, le mie suppliche soffocate tra le
lacrime che colavano miste a muco nella gola secca e dolorante.
La carnagione scura divenne cinerea, quasi il suo volto
fosse stato imbellettato per bene con cipria chiara
o correttore. La mascella si serrò, le mani si alzarono come al rallentatore e
mi scostarono i capelli madidi dal volto.
“No, no ti prego, no!” supplicavo ancora, pur sapendo che le
mie suppliche lo eccitavano ancor di più.
Un ghigno animalesco spuntò mentre le mani calavano sul mio
collo inerme. Strinse, strinse sempre con più foga, mentre gli occhi divenivano
lucidi di piacere e i miei strabuzzavano fuori dalle orbite. Strinse finché non
persi i sensi. Quanto avrei desiderato morire soffocata, dar fine alle mie
sofferenze. Invece il gocciolio delle tubature mi destò. Non volevo aprire gli
occhi. “No, no, noooo!” gridava la mia mente, mentre il sapore ferroso colava
nella gola. Tossii, una, più volte. Rimasi ad occhi chiusi, sperando che per
magia tutto sparisse. Mi crogiolai nell’assurda fantasia di aprire gli occhi
nella mia camera. La prima cosa che avrei visto sarebbe stata la mensola con i
miei libri preferiti, come mi mancava sfogliare quelle pagine amate, sentirne l’odore,
la sensazione che procura il frusciare dei fogli tra le dita. Il più amato Robinson crusoe, avuto in eredità da mio nonno, o meglio, sottratto alla
spazzatura durante la ripulitura del garage, dopo che lo avevamo sbattuto in
ospizio e affittato il suo appartamento. Lo sguardo borioso di mio zio Gianni
che mi dice: “Fa vedere che hai preso” e mi strappa il libro dalle mani per
restituirmelo subito dopo, constatando che non valeva che pochi centesimi,
riusciva ancora a farmi innervosire, nonostante tutto. ‘È già qualcosa’ pensai,
‘la vita reale è ancora in grado di tornarmi alla mente e darmi emozioni’.
La sete mi attanagliava, la ferita pulsava in modo
insopportabile, dovevo ancora urinare, ma non mi feci problemi a farlo nel
letto. Aspettavo la morte e pregai che arrivasse presto.
I miei sogni ultimamente erano popolati da scene in cui il
lo facevo infuriare in ogni modo, per provocarlo, per farlo andare oltre le
mani sulla gola, per farmi uccidere. Ma poi quando sentivo i passi avvicinarsi
iniziavo a tremare e già sapevo che avrei scongiurato in modo patetico di non
farmi male.
Trattenni il fiato, speravo assurdamente di soffocarmi, ma
dopo i primi bruciori, dopo che provai a battere i piedi per resistere, la
bocca si spalancò annaspando, inalando freneticamente l’amara aria, tra le lacrime
che riprendevano a scivolare sulle mie guance smunte.
“Che abbiamo qui, signorina, ancora problemi?”
La voce mi arrivò distorta, per un attimo pensai ancora
fosse lui, poi riaffiorò, tra la nebbia del mio cervello, il volto occhialuto
del dottore.
Piansi, mi scusai, come se servisse a qualcosa: ero lì, ferita
da un killer da cui non potevo scappare: me stessa!
“Ancora gli incubi?” chiese iniziando a visitarmi. Io fisso
inebetita l’infermiere, LUI, che popolava i miei deliri e giocava a scacchi con
me nei momenti buoni. Piansi e continuai a fissarlo in una muta richiesta di
perdono, avevo il terrore di perdere la sua amicizia. Ero sola…sono sola e non
posso far altro che starmene qui legata al letto, tra le strette mura della stanza
d’isolamento del manicomio.
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