Alla
parete riproduzioni e stampe di quadri cubisti, molti erano delle bellissime
donne di Marie Laurencin e quelli più astratti di Albert Gleizes. Poche
suppellettili provenienti sicuramente da viaggi in tutto il mondo: tre piccole
statuette di ebano africane, un buddha di pietra vicino alla dea Kalì e un vaso
cinese, Leila si avvicinò e toccò il buddha spostandolo.
«No!»
Sobbalzò
rischiando di farlo cadere.
«Scusami» disse spaventata, lui si avvicinò e lo
rimise esattamente dov’era.
«Non toccare
niente!» disse arrabbiato. Leila era
molto turbata, quell’uomo aveva qualche rotella fuori posto! Cercò di non
pensarci, ricordando quel che affermava sempre sua madre, che la sapeva lunga
sulle persone: “Ognuno è pazzo a modo suo Leila,” diceva quando la sentiva
criticare il comportamento di qualcuno. Era un’insegnante in una scuola
pubblica ed aveva visto comportamenti e problematiche di tutti i tipi,
imparando a tirar fuori il buono da ogni individuo, senza fermarsi alle
apparenze.
«Senti, puoi rimanere qui a casa mia finché tutto
non sarà finito, non ti troveranno mai qui» disse lui in tono più conciliante.
«Non ci pensare nemmeno Clay.»
Ancora una volta lui perse la pazienza: «Oh pazza,
testarda, insopportabile donna, ora capisco perché tuo marito ti ha lasciata,
vuoi prevaricare su tutto!»
Lei divenne livida, era furiosa fino al midollo,
come si permetteva? Gli mollò un ceffone in pieno volto.
«Non ti permettere! Non provare a parlare di cose
che non conosci, tu non sai chi sono io, non mi conosci, non sai nulla!»
«E neanche ci tengo!» rispose massaggiandosi la
guancia, su cui era comparsa, ben visibile, l’impronta delle cinque dita.
«E poi non sono sposata, non lo sono mai stata!»
gridò quella spiegazione superflua come fosse la cosa più importante del mondo.
Lui scosse la testa. «Oh, se provi a colpirmi ancora
ti restituisco il colpo, sia chiaro!» poi uscì dalla stanza sparendo in camera
sua.
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