Affacciandosi alla
vecchia vita
Jonas non riusciva a crederci: era stato a contatto con
quella donna giorno dopo giorno, aveva provato simpatia ed interesse per lei ed
ora scopriva che era sua moglie, anzi, la sua ex moglie e probabilmente aveva
riso di lui e del suo sciocco flirtare. Fu tentato di chiederle cosa le fosse
saltato per la testa, ma poi decise che non ne voleva sapere, non voleva altro
che una bella doccia, un buon caffè e dimenticare tutta questa storia per
ricominciare una nuova vita.
Hors era taciturno, il volto cinereo mostrava che non aveva
gradito lo scambio di ricordi, almeno quanto lui.
“Guida tu” chiese con un filo di voce “63 esima strada”
“Conosco il tuo indirizzo” replicò Jonas, Hors non commentò,
non sembrava avere forze per esultare.
L’abitazione era una delle tante villette a schiera del
complesso residenziale, con il minuscolo giardinetto antistante. Il cancello si
spalancò riconoscendo la scansione corporea di Hors. Un drone dall’aspetto
femminile venne ad aprire, Jonas ne fu stupito, non ricordava molto, ma non gli
sembrava tipo da droni.
“Buona sera” salutò “Il suo ospite si fermerà a cena?”
“Prepara la stanza degli ospiti, Questo è il detective Jonas,
si fermerà per alcuni giorni”
Jonas tacque, ignorando il robot, entrò e subito si bloccò, un
altro consistente flusso di ricordi lo colpì come un pugno, non sapeva se
provenissero da lui o da un residuo di quelli di Horse.
Dovette sorreggersi ad un mobile, mentre la testa girava.
“papà, papà, sei
arrivato finalmente, sapessi cos’ho da farti vedere, su corri!” una ragazzina
sui tredici anni tirava la mano ai proprietario dei ricordi “Piano, piano”
disse la voce non sua.
La ragazza lo trascinò
in salotto, corse a sedersi ad un antico piano forte a coda e iniziò a suonare
stonando un po’. Jonas percepì un amore profondo, un amore non suo, che pulsava
violentemente in tutto il suo essere.
Strinse più forte le mani al legno, poi buio, solo per un attimo e risate,
ancora quel salotto e mani lisce tra le sue. Non ci fu bisogno di vedere, all’istante
seppe di chi era quella risata e provò un profondo senso di soddisfazione e
felicità, come non ricordava di averne mai provata. Lei aveva i capelli raccolti, due piccoli orecchini brillanti e un
sorriso sensuale diretto solo a lui. I suoi occhi penetranti lo facevano
rabbrividire, mentre accarezzava piano il dorso della mano, compiendo piccoli
cerchi con il pollice. Lei si chinò su di lui e gli sussurrò: “Ti amo” lo
stomaco si serrò all’istante e la sua mente rispose: “Anch’io” ma non la voce
del ricordo, che tacque in modo imbarazzante.
“Jonas stai bene?” sentì la voce lontano anni luce.
“Battito irregolare, respiro affannoso” iniziava il drone.
“Sì, tutto ok” disse, spingendo via la cameriera, che con un
tonfo batté contro il mobile.
Hors lo rimproverò con lo sguardo
“Che c’è?non provano dolore” si giustificò.
La sala era arredata in vecchio stile: niente poltrone ad
elio o capsule massaggianti, un vecchio divano in tessuto e un pianoforte. Al
centro della sala però una modernissima poltrona per disabili avvolgeva Martha,
che intenta a rimirare un movie, non si accorse di loro, immersa in quella che
in gergo veniva chiamata seconda realtà.
“Disattivati” disse piano Hors, gli attori, che si
struggevano nel loro salotto, sparirono, così come il vecchio treno dietro alle
loro spalle. Martha girò lo sguardo un po’ disorientata poi la sua voce parlò
dall’impianto audio della casa:
“Nathan!” lo salutò senza muovere le labbra, e Jonas
rabbrividì al ghigno che comparve su metà del suo viso, mentre l’altra metà
rimaneva inespressiva, floscia. Un altro breve ricordo di numerosi infusi
bevuti su quel divano e della risata cristallina e il fare spicciolo di quella
donna minuta, ora ridotta ad un vegetale inerme.
“Siediti un attimo caro” disse ancora la voce. Era così
alienante vedere lei immobile in quella poltrona e la sua voce aleggiare nell’aria,
lontana dal proprio corpo.
Jonas ubbidì, stranamente in soggezione.
“Ho bisogno di sdraiarmi” Hors baciò sua moglie sulla
fronte, velocemente, poi fece cenno al drone di seguirlo e a Jonas non rimase
che rimanere lì impacciato a guardarsi intorno.
“Ti vedo meno nervoso, meno rabbioso dell’ultima volta.
Pannello A2 per favore”
Dal basso tavolino di resina opalescente fuoriuscirono dei
pasticcini e un tè fumante. Jonas, improvvisamente grato per il ristoro, si
fiondò sul cibo. Era esausto.
“Lei non è più venuta a trovarmi” disse poi la donna.
Un boccone andò di traverso e Jonas si fermò a fissarla,
istantaneamente un’immagine, ancora quel salotto, ancora loro, ma l’aria tesa
si percepiva da ogni respiro.
“Te l’ho detto, fai ciò che credi, non voglio discuterne,
tantomeno qui” la sua voce era dura e scocciata, non poteva vedere il proprio
volto, quelli erano ricordi suoi, almeno credeva.
La Savini tacque, sembrava stesse per piangere.
“Emma” disse, e di colpo quel nome tornò alla mente, come
fosse sempre stato sulla punta della lingua. “Non lo terrai, o lo terrai da
sola” poi la scena cambiò, ma era al contempo la stessa: vide se stesso
venirgli incontro, ora dalla visuale di Hors, gli diede una forte spallata ed
uscì sbattendo la porta.
Ora Emma piangeva, il volto nascosto tra le mani. La sua
finestra sulla scena si avvicinò senza parlare, vide comparire un fazzoletto
dalla sua mano, la mano di Hors.
“Non ti manca?”
La voce di Marta sembrava insinuarsi nei meandri del suo
animo. “È tutta colpa di quel chip”
aggiunse la voce. Ma Jonas la guardava senza capire più nulla:
“Cosa dicevano? Cosa stavano dicendo?” chiese, come se
potesse leggergli nel pensiero. Silenzio. Nathan non osò chiedere di più.
“Vorrei fare una doccia, trovo l’occorrente da solo” disse.
Socchiuse gli occhi alla ricerca dei ricordi giusti, stava imparando a gestire
questa nuova cosa. Si diresse deciso alla seconda porta nel corridoio, salendo
le scale.
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