La confessione.
“Sono incinta”
Quelle parole riecheggiavano nella mia testa senza che riuscissi a dargli un significato.
Seduti sul mio letto, non trovando il coraggio di guardarci in faccia, lei le unghie, di solito curate e laccate di smalto, rosicchiate fino a sanguinare, io che torcevo la stoffa dei pantaloni del pigiama di flanella.
“Ma come…” iniziai finalmente a dire. Era un argomento ostico per me, all’epoca parlare di certe cose con una ragazza non era solo sconveniente, era un vero tabù, oltre al fatto che non ne sapevo quasi niente: vergine di fatti e pensieri ero ancora attratto dalla figura femminile per quel poco che intravvedevo durante le scampagnate al fiume, quando le ragazze si alzavano le gonne e indossavano abiti scollati. Sognavo baci romantici e passeggiate mano nella mano, questo era davvero fuori dalla mia portata.
Non rispondeva, lei ormai donna con in grembo un figlio, che parlava a me bimbetto senza cervello e senza speranze. Mi preparai a dirle la verità su di te, sul mio gesto, sull’omicidio, lei si era aperta a me ed io l’avrei protetta, ma dovevo prima liberarmi la coscienza, forse mi avrebbe capito e perdonato.
Poi si riscosse, sembrò farsi coraggio, forse intuendo che io non ne avrei mai avuto, forse già capendo che era lei che avrebbe dovuto prendere le redini e trascinarci verso la salvezza o la perdizione.
“è di Luca” disse crollando immediatamente, incurvò le spalle prendendosi la testa tra le mani.
“C-cosa?” sussurrai “Cosa?” urlai alzandomi di scatto dal letto disfatto. Mi sentivo tradito, annaspavo nel risentimento, proprio io, che ti avevo condannato per sempre, mi sentivo ferito da qualcosa di infinitamente inferiore a ciò che io ti avevo fatto. Eppure ti odiai, ti odiai ancora una volta. Tu strambo ragazzino al limite tra il genio e il ritardato, mi avevi fregato la ragazza e avevi fatto sesso prima che io fossi riuscito a dare un bacio vero, prima che avessi potuto affondare il naso tra i soffici capelli e sentirne il profumo inebriante. Ero rabbioso, fori di me. Presi i modellini che avevamo fatto insieme e li fracassai, ad uno ad uno piangendo.
“Puttana!” urlai ad Emma una, due, infinite volte, ma lei non si muoveva, non se ne andava, non mi urlava contro, lei aveva già trovato la soluzione e aspettava che sbollissi la rabbia per mostrarmela.
“Don Michele lo sai come la chiama questo? Incesto! Tuo fratello, cazzo, e non è neanche normale!”
Si alzò veloce come non ci si aspetta da chi è distrutto dal dolore, a un centimetro dal mio volto mi fissò, lo schiaffo partì, violento, potente, furioso.
“Non lo dire, non lo dire questo, non tu, che lo sai com’è speciale, io l’ho amato, lo amo ancora”
“Lo ami?” le parole mi morirono in gola. Come potevo dirle ora che avevo condannato il mio amico, il suo amore?
“Ma devo pensare al bambino” fece una pausa, improvvisamente calma, vidi un’unica lacrima scivolare sulla sua guancia pallida.
“Tu mi ami Salvo, non è così?”
Tacqui sbalordito dalla sua freddezza, dal suo andare al dunque, colpendo nel segno.
“Sì” mi arresi.
“Allora sposami, imparerò ad amarti ed insieme ci prenderemo cura del bambino che porto in grembo, ti chiedo molto, ti chiedo tutto, in cambio sarò la moglie perfetta, farò qualunque cosa per te, vivrò solo per renderti felice”
Mi mancava l’aria, era troppo da sopportare ed io ero troppo giovane e immaturo. Ma d’un tratto mi bloccai tra i rottami dei nostri giochi di una gioventù di colpo lasciata alle spalle. Intravidi una via d’uscita, la strada per la redenzione: Avrei cresciuto tuo figlio, dandogli un futuro grandioso, quello che tu comunque non avresti mai potuto dargli, troppo lontano dagli schemi, dai canoni di quel che ci si aspetta da un capofamiglia. Io invece ce l’avrei fatta, per te, per me e per Pietro. Non so come mi uscì subito questo nome: forte e deciso sarebbe stato, non come me o come te. Pietro sarebbe stato quello che noi insieme non eravamo potuti essere.
Quelle parole riecheggiavano nella mia testa senza che riuscissi a dargli un significato.
Seduti sul mio letto, non trovando il coraggio di guardarci in faccia, lei le unghie, di solito curate e laccate di smalto, rosicchiate fino a sanguinare, io che torcevo la stoffa dei pantaloni del pigiama di flanella.
“Ma come…” iniziai finalmente a dire. Era un argomento ostico per me, all’epoca parlare di certe cose con una ragazza non era solo sconveniente, era un vero tabù, oltre al fatto che non ne sapevo quasi niente: vergine di fatti e pensieri ero ancora attratto dalla figura femminile per quel poco che intravvedevo durante le scampagnate al fiume, quando le ragazze si alzavano le gonne e indossavano abiti scollati. Sognavo baci romantici e passeggiate mano nella mano, questo era davvero fuori dalla mia portata.
Non rispondeva, lei ormai donna con in grembo un figlio, che parlava a me bimbetto senza cervello e senza speranze. Mi preparai a dirle la verità su di te, sul mio gesto, sull’omicidio, lei si era aperta a me ed io l’avrei protetta, ma dovevo prima liberarmi la coscienza, forse mi avrebbe capito e perdonato.
Poi si riscosse, sembrò farsi coraggio, forse intuendo che io non ne avrei mai avuto, forse già capendo che era lei che avrebbe dovuto prendere le redini e trascinarci verso la salvezza o la perdizione.
“è di Luca” disse crollando immediatamente, incurvò le spalle prendendosi la testa tra le mani.
“C-cosa?” sussurrai “Cosa?” urlai alzandomi di scatto dal letto disfatto. Mi sentivo tradito, annaspavo nel risentimento, proprio io, che ti avevo condannato per sempre, mi sentivo ferito da qualcosa di infinitamente inferiore a ciò che io ti avevo fatto. Eppure ti odiai, ti odiai ancora una volta. Tu strambo ragazzino al limite tra il genio e il ritardato, mi avevi fregato la ragazza e avevi fatto sesso prima che io fossi riuscito a dare un bacio vero, prima che avessi potuto affondare il naso tra i soffici capelli e sentirne il profumo inebriante. Ero rabbioso, fori di me. Presi i modellini che avevamo fatto insieme e li fracassai, ad uno ad uno piangendo.
“Puttana!” urlai ad Emma una, due, infinite volte, ma lei non si muoveva, non se ne andava, non mi urlava contro, lei aveva già trovato la soluzione e aspettava che sbollissi la rabbia per mostrarmela.
“Don Michele lo sai come la chiama questo? Incesto! Tuo fratello, cazzo, e non è neanche normale!”
Si alzò veloce come non ci si aspetta da chi è distrutto dal dolore, a un centimetro dal mio volto mi fissò, lo schiaffo partì, violento, potente, furioso.
“Non lo dire, non lo dire questo, non tu, che lo sai com’è speciale, io l’ho amato, lo amo ancora”
“Lo ami?” le parole mi morirono in gola. Come potevo dirle ora che avevo condannato il mio amico, il suo amore?
“Ma devo pensare al bambino” fece una pausa, improvvisamente calma, vidi un’unica lacrima scivolare sulla sua guancia pallida.
“Tu mi ami Salvo, non è così?”
Tacqui sbalordito dalla sua freddezza, dal suo andare al dunque, colpendo nel segno.
“Sì” mi arresi.
“Allora sposami, imparerò ad amarti ed insieme ci prenderemo cura del bambino che porto in grembo, ti chiedo molto, ti chiedo tutto, in cambio sarò la moglie perfetta, farò qualunque cosa per te, vivrò solo per renderti felice”
Mi mancava l’aria, era troppo da sopportare ed io ero troppo giovane e immaturo. Ma d’un tratto mi bloccai tra i rottami dei nostri giochi di una gioventù di colpo lasciata alle spalle. Intravidi una via d’uscita, la strada per la redenzione: Avrei cresciuto tuo figlio, dandogli un futuro grandioso, quello che tu comunque non avresti mai potuto dargli, troppo lontano dagli schemi, dai canoni di quel che ci si aspetta da un capofamiglia. Io invece ce l’avrei fatta, per te, per me e per Pietro. Non so come mi uscì subito questo nome: forte e deciso sarebbe stato, non come me o come te. Pietro sarebbe stato quello che noi insieme non eravamo potuti essere.
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